Festival Mann, arriva Francesco Motta: nella sala Farnese intervista e set acustico

Francesco Motta

Festival Mann, arriva Motta: nella sala Farnese intervista e set acustico Pop non è una cattiva parola. È possibile fare del pop semplice, profondo e ascoltabile. Il pisano Francesco Motta sa come si fa. Mescolando pop, folk e rock. Proprio lui è il primo ospite pomeridiano della seconda giornata al Festival Mann. Reduce da un tour trionfale in giro per l’Italia, sold out praticamente ovunque, Motta si racconta a tutto tondo. Intervistato da Francesco Raiola, capo area Musica a Fanpage.it.

Francesco Motta al Festival MANN

Dai suoi esordi in lingua inglese, come cantante nei Criminal Jokers. Fino alla pubblicazione del suo primo disco solista, La fine dei vent’anni, di cui si è parlato tanto nell’ultimo anno. Si tratta probabilmente del più bel disco italiano del 2016. Vincitore della Targa Tenco come migliore opera prima. Se la gioca forse solo con le ultime incisioni di Capossela e Fabi. Del tempo che passa la felicità è, a modesto parere di chi scrive, la più bella canzone registrata in Italia nell’ultimo anno. Non è però il momento di fare classifiche. La fine dei vent’anni è stato un esordio a dir poco prepotente. Parte del merito, per ammissione dello stesso Francesco, è della produzione di Riccardo Sinigallia, del quale viene sottolineata più volte l’amicizia instauratasi tra i due.

La fine dei vent’anni

La materia prima è però di alto livello. La fine dei vent’anni è un’opera persuasiva a prescindere. Mescola l’orecchiabilità tipica del pop con la struttura tipica delle canzoni d’autore. L’artista pisano ha una voce così nitida, forte e versatile al punto da utilizzarla come vuole. Ciò spiega l’elemento che più caratterizza La fine dei vent’anni: la varietà. Partendo dalla title track, eseguita live, con l’accompagnamento della sapiente chitarra di Giancarlo Maria Condemi ed emozionando il pubblico numeroso della sala Farnese. «La fine dei vent’anni/ è un po’ come essere in ritardo/ non devi sbagliare strada, non farti del male»: parole forti, dedicate a quell’attimo inevitabile nella crescita di ognuno. Il momento di prendere decisioni, di crescere, di staccarsi dal grembo materno.

Queste parole si riallacciano a un altro elemento fondamentale del disco, di cui si è parlato tanto nell’incontro: l’intimità, inteso come la profonda estraneità di Francesco Motta dagli agenti esterni e la sua volontà di concentrarsi solo ed esclusivamente su se stesso per esprimere al meglio ciò che si trova dentro di lui. In questo modo trasforma paure e incertezze personali in arte. La fine dei vent’anni è stato definito un disco generazionale. Il motivo resta profondamente oscuro. Sarà stato forse il titolo, chissà. Motta, sollecitato da Raiola, infatti, ci tiene a dire che il disco era e resta profondamente personale. Il suo momento di zenit creativo, racconta lo stesso Francesco, prevede la solitudine in camera come un adolescente qualsiasi. Nessuna intenzione di ritrarre la condizione dei giovani d’oggi, dunque. Solo, si fa per dire, una profonda introspezione interiore.

Prendono in tal modo vita i versi di Mio padre era comunista, altra colonna portante dell’album. «Mio padre era un comunista/ e adesso colleziona cose strane/ Mia madre era bellissima/ dice che un figlio un giorno lo farò/ L’amore/ per loro/ è aspettare insieme/ la fine delle cose». A proposito di ciò, Motta si concentra particolarmente sul bel rapporto che ha con la propria famiglia, definita fondamentale nella propria crescita artistica e personale, avendolo supportato dagli inizi. Sin dai tempi dei primi tour, da minorenne, quando, per dire, non aveva la patente e girava la Toscana a bordo dei treni.

La discussione si incentra poi sul rapporto tra il pisano e la musica italiana, particolarmente sullo stato attuale di quella categoria così ampia, di cui si è detto tutto o niente, che è l’indie. Un termine che ormai serve solo a semplificare il lavoro dei giornalisti, raccogliendo sotto una unica parola tutti quegli artisti e quelle canzoni che difficilmente passerebbero in radio. Motta rifiuta però queste etichette, al punto da ridurre i propri gusti musicali in categorie che più elementari non si potrebbe. La musica è bella o brutta. Ci sono artisti cosiddetti indie più commerciali di un ritornello sanremese qualsiasi e viceversa. Etichettare in maniera così semplicistica va solo a scapito della buona musica, che andrebbe tutelata sempre e in ogni contesto.

Raiola coglie così la palla al balzo per parlare delle influenze musicali di Motta. A dir poco sorprendenti, a testimonianza di quanto appena detto. Il pisano cita Dalla, De Gregori e soprattutto Edoardo Bennato, «l’unico che ascoltavo quando avevo cinque anni e che ascolto tuttora». L’altro pezzo eseguito dal vivo è Abbiamo vinto un’altra guerra. Cronaca di una relazione che si trascina nonostante il crollo. Canzone che conclude così uno splendido incontro.

La fine dei vent’anni è un’opera prima sorprendentemente adulta e intelligente. L’esordio comincia così, dice già tutto dalla copertina con quel suo sguardo fulminante in bianco e nero. È la testimonianza diretta di quanto poco ci sia di esterno in questo disco e di quanto di Motta c’è invece. Il pisano segna così l’inizio di una carriera e di un percorso tutto tricolore di cui c’è solo di andare orgogliosi. Al Festival Mann ha poi affermato nuovamente l’intenzione di tornare in studio di registrazione il prima possibile. Non vediamo l’ora di ascoltare il nuovo album di quello che è, ad oggi, tra gli artisti più originali ed interessanti del panorama musicale italiano.

A proposito di Matteo Pelliccia

Cinefilo, musicofilo, mendicante di bellezza, venero Roger Federer come esperienza religiosa.

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