Donne, madri, lavoratrici: la lotta invisibile di chi cresce un figlio fragile in una società sorda
Crescere un figlio è una delle esperienze umane più profonde, trasformative e delicate. Quando però quel figlio è affetto da una malattia degenerativa e invalidante, come la sindrome di Dravet, una rara encefalopatia epilettica dell’infanzia, la genitorialità assume un volto inedito, spesso ignorato dalla società: quello della responsabilità assoluta, perenne, senza fine.
Il bambino cresce in età, ma rimane prigioniero di un corpo e di una mente vulnerabili. Bambino per sempre, appunto. In questa dimensione, ogni giorno è un esercizio di adattamento, una lotta contro la stanchezza fisica, la solitudine emotiva e l’inerzia istituzionale. E chi si trova al centro di questo equilibrio precario è quasi sempre la madre. Una donna che diventa caregiver, manager sanitaria, avvocata dei diritti del figlio, organizzatrice logistica, infermiera, educatrice e, quando può, anche lavoratrice. Per molte madri, il lavoro non è solo un dovere o un diritto: è un’àncora di sopravvivenza emotiva e materiale. È l’unico spazio in cui mantenere un’identità diversa da quella di “madre di un bambino disabile”. Eppure, per queste donne, il lavoro diventa spesso un privilegio difficile da ottenere e ancora più difficile da conservare.
I dati ISTAT e i principali studi sociologici sul caregiving familiare lo confermano: chi si occupa di un figlio con disabilità ha molte più probabilità di uscire dal mondo del lavoro, o di essere costretto a ridurlo drasticamente. E le aziende, nella maggior parte dei casi, non sono preparate ad accogliere queste esigenze: si ottiene un part-time solo dopo insistenze estenuanti, i permessi della Legge 104 vengono visti come assenze strategiche, e chiedere flessibilità equivale a esporsi al rischio di mobbing o demansionamento. Questo circolo vizioso genera frustrazione, impoverimento, isolamento. Ma anche, sorprendentemente, una forma di reazione creativa.
Quando tutto sembra sfuggire di mano, molte madri (e padri) riscoprono un canale vitale: la creatività. Scrivere, dipingere, recitare, cucire, costruire, progettare: tutte queste attività, a prima vista secondarie, diventano linfa per la sopravvivenza psichica. Attraverso l’arte e la narrazione, il dolore prende forma, esce dal corpo e diventa condivisibile. È in questo contesto che è nato il libro “Per niente facile”, un’opera collettiva che raccoglie le testimonianze autentiche di genitori che convivono ogni giorno con la malattia del figlio. Non si tratta di storie edulcorate, né di lamenti, ma di pagine vive, reali, a volte crude. Sono racconti che rompono il silenzio e fanno emergere una verità fondamentale: non si può sopravvivere a certe esperienze se non le si trasforma, se non le si comunica. Dare forma all’esperienza attraverso la scrittura, il teatro, la fotografia, la poesia non è solo un gesto personale: è un atto collettivo, un modo per costruire ponti. Queste esperienze si moltiplicano quando le famiglie si uniscono, quando smettono di sentirsi sole e scoprono di condividere le stesse fatiche, le stesse domande, lo stesso bisogno di essere viste.
La rete, in questo senso, è molto più di un supporto: è un generatore di inventiva sociale. Quando le famiglie si incontrano, nascono idee. Si organizzano laboratori creativi, gruppi di lettura, progetti teatrali, convegni. Si fondano associazioni come Dravet Italia Onlus, che diventa non solo uno spazio informativo, ma una casa comune, un luogo in cui l’energia individuale si trasforma in forza collettiva.
In molte realtà, la cooperazione tra famiglie e istituzioni ha portato alla creazione di progetti innovativi: spazi di co-working per madri caregiver, percorsi scolastici inclusivi, corsi di formazione per operatori e insegnanti, sportelli psicologici specializzati. Ma perché tutto questo funzioni, serve un presupposto: la volontà politica e sociale di ascoltare. Senza ascolto, non c’è innovazione che tenga. Fare comunità non significa solo condividere un problema, ma anche una visione. È riconoscere che il dolore individuale può diventare un motore per cambiare ciò che non funziona. Le madri, i padri, le famiglie non vogliono solo assistenza: vogliono partecipare, essere parte attiva delle decisioni che riguardano la vita dei loro figli. In questo processo, il ruolo delle istituzioni è cruciale. Non basta delegare tutto al Terzo Settore o ai volontari. Le famiglie devono essere messe nelle condizioni di costruire il futuro insieme alle istituzioni, in un’ottica di cooperazione reale, non di assistenzialismo. La scuola, il lavoro, i servizi sociali, il sistema sanitario devono diventare interlocutori, non ostacoli.
“Bambini per sempre” non è un’etichetta triste. È una chiamata a guardare con occhi diversi la disabilità e la genitorialità. È il riconoscimento che alcune infanzie non si concluderanno mai, e che proprio per questo richiedono un impegno adulto, collettivo, consapevole. Dare forma all’esperienza attraverso l’arte, la scrittura, il racconto non è solo terapeutico: è politico. È dire “noi ci siamo”. È mettere in scena, rendere visibile, rompere l’isolamento. È costruire bellezza anche dove la vita sembra solo un accumulo di rinunce. Il futuro non sarà più facile. Ma può essere più umano, più giusto, più condiviso. E questo, oggi più che mai, dipende da tutti noi.
Di Yuleisy Cruz Lezcano