In molti contesti lavorativi, soprattutto in ambito sanitario, educativo e assistenziale, le donne che cercano di conciliare lavoro e famiglia vivono un carico psicologico e relazionale che va ben oltre la fatica ordinaria, ma quando a questa fatica si aggiungono ulteriori elementi identitari, come l’essere una madre, lavoratrice part-time, straniera, e magari caregiver di bambini piccoli o con disabilità, il rischio di esclusione e isolamento cresce in maniera esponenziale. In questi casi, la sola appartenenza a più gruppi sociali “fragilizzati” diventa un ostacolo quotidiano alla piena partecipazione professionale e al riconoscimento del proprio valore. È qui che diventa fondamentale adottare un approccio intersezionale, capace di leggere la complessità delle oppressioni non come somma di problemi individuali, ma come effetto combinato di sistemi di potere che si intrecciano.
Il concetto di intersezionalità, sviluppato dalla giurista afroamericana Kimberlé Crenshaw, ci aiuta a comprendere come diverse forme di discriminazione (sessismo, razzismo, classismo, abilismo…) non agiscano separatamente, ma si sovrappongano, generando vulnerabilità uniche. Nel contesto lavorativo, una donna part-time, madre e straniera può trovarsi doppia o triplicemente penalizzata, dovuti a numerosi fattori come: la “ridotta disponibilità” dovuta alla cura familiare, la sua appartenenza etnica o culturale, il suo status occupazionale (precaria, part-time, temporanea). Tutti questi fattori amplificano la percezione sociale del “peso” che porta (malattie del figlio, assenze, aspettative).
La cultura dominante, ancora centrata su un ideale di lavoratrice pienamente disponibile, “senza corpo e senza legami”, tende a escludere chi non si conforma a questo modello. Il risultato è un clima tossico, fatto di esclusione silenziosa, pettegolezzi, dispetti, incarichi degradanti e isolamento comunicativo. In pratica: si viene lasciate fuori dalle conversazioni, non informate sulle decisioni, si parla alle spalle e si viene usate per i lavori più faticosi o meno gratificanti, proprio perché “sei solo part-time”, “sei sempre assente”, “non sei come noi”. Essere una madre migrante aggiunge un ulteriore livello di complessità. Le donne straniere, anche quando perfettamente integrate o residenti da anni, sono ancora spesso oggetto di diffidenza e stereotipi: viste come “meno professionali”, “meno affidabili”, o “più problematiche” per via delle difficoltà linguistiche, delle diverse abitudini culturali, o dei bisogni familiari considerati “esagerati”. Questo stigma si manifesta in mille piccole forme: si dà per scontato che non capisca, che non abbia le stesse competenze, che debba “farsi le ossa” di più. Spesso le richieste di permesso per la malattia del figlio o le aspettative per esigenze familiari vengono vissute come abuso, anche se previste dalla legge. Ma lo sguardo sospettoso è più affilato quando chi lo riceve è una donna straniera: la narrazione implicita è che “sta approfittando”, “non si integra”, “non si sacrifica abbastanza”.
Il problema non è solo nei contratti o nelle policy: il problema è relazionale. Si viene lasciate fuori dalla pausa caffè, non invitate a riunioni informali, ignorate nei momenti decisionali. Il mobbing diventa sottile, quasi invisibile: nessuna parola apertamente ostile, ma un continuo scivolamento verso l’irrilevanza. E ogni giorno diventa una lotta per dimostrare che si ha diritto di essere lì, pur senza potersi sempre “dare tutta”. La cosa più crudele? Molto spesso, queste esclusioni arrivano da altre donne, anche madri, anche caregiver. Un meccanismo di sopravvivenza distorto, dove chi ha interiorizzato la fatica e la rinuncia come norma, tende a giudicare chi chiede riconoscimento o protezione.
A questo punto ci si può chiedere “come rompere il cerchio?” Senz’altro ci sono delle strategie individuali e collettive e il primo passo è dare un nome alle oppressioni. L’intersezionalità non è solo un concetto teorico, è uno strumento per nominare e legittimare esperienze vissute come confusione, colpa o vergogna. Sapere che quella sensazione di esclusione ha una struttura sociale è il primo passo per non colpevolizzarsi. Un secondo passo da dare è costruire alleanze trasversali. La donna che è in questa situazione, deve cercare altre persone, donne, colleghi, sindacalisti, che riconoscano queste dinamiche e siano pronti a costruire un cambiamento. L’isolamento è la prima arma del sistema; la rete è il primo antidoto.
Comunque, davanti a un mondo lavorativo che cambia, le aziende potrebbero formare il personale su diversità, cura e discriminazioni multiple. Ogni luogo di lavoro dovrebbe prevedere momenti formativi obbligatori su discriminazioni intersezionali, micro-aggressioni e cultura della cura. Non basta la “tolleranza”: serve trasformazione culturale. Bisognerebbe rendere visibili i carichi invisibili, è necessario parlarne, scrivere, raccontare. Portare la propria esperienza in spazi sicuri e pubblici, laddove possibile. Quando una voce si alza, può aprire la strada per altre.
Essere madre, part-time e straniera non è una colpa, né un limite. È una condizione reale, che porta con sé competenze, resilienza e profondità. Ma per far sì che questa condizione non diventi un motivo di esclusione, serve un cambiamento radicale nei luoghi di lavoro. Serve una cultura del rispetto, dell’ascolto e del riconoscimento. Serve, soprattutto, che chi oggi subisce queste dinamiche non si senta sola. Perché non lo è. E perché il cambiamento comincia proprio da chi ha il coraggio di raccontare ciò che spesso viene taciuto.
Di Yuleisy Cruz Lezcano