Sindrome di Stoccolma: un legame paradossale

SINDROME DI STOCCOLMA: UN LEGAME PARADOSSALE

Che cos’è la sindrome di Stoccolma? C’è chi l’ha conosciuta guardando un film, chi ne ha sentito di sfuggita il nome al telegiornale e chi l’ha cantata a squarciagola nel brano del suo artista preferito, eppure quasi tutti ne ignorano le origini e la vera natura. Si tratta di un fenomeno psicologico che emerge in alcune vittime di situazioni estreme come rapimenti o sequestri prolungati e comporta lo sviluppo di sentimenti positivi nei confronti del proprio aguzzino. Per la sua natura affascinante e al tempo stesso enigmatica, negli ultimi anni, questo legame insolito e paradossale ha attirato particolare attenzione nei media. 

Sindrome di Stoccolma: l’origine del nome

La sindrome di Stoccolma deve il suo nome allo psichiatra e criminologo svedese Nils Bejerot, che lo coniò a seguito di un avvenimento storico accaduto nel 1973 proprio a Stoccolma, dove per 131 ore consecutive, dal 23 al 28 agosto, due rapinatori mantennero sotto sequestro quattro impiegati della Sveriges Kreditbanken all’interno della camera di sicurezza. La cosa curiosa è che, durante il sequestro, le vittime svilupparono un legame emotivo nei confronti dei propri sequestratori, che li spinse in seguito a rifiutarsi di testimoniare contro di loro e, in alcuni casi, a schierarsi apertamente a loro favore. Nonostante la loro vita fosse stata messa a repentaglio per quasi 6 giorni, a seguito delle interviste psicologiche, si scoprì che gli ostaggi avessero temuto più la polizia dei rapitori stessi.

Le caratteristiche principali

Con un’incidenza dell’8% tra le vittime di sequestri secondo una statistica realizzata dall’FBI nel 1999, la sindrome di Stoccolma si manifesta nelle sue vittime attraverso una serie di caratteristiche comuni:

  1. Lo sviluppo di sentimenti, emozioni, fantasie e pensieri positivi verso il sequestratore, tra cui fiducia, simpatia, o perfino innamoramento;
  2. L’ostilità nei confronti delle forze dell’ordine o di chiunque offra un aiuto: spesso la vittima può opporsi attivamente al soccorso o rifiutarsi di collaborare con le autorità;
  3. L’assenza di una conoscenza pregressa tra sequestratore e vittima: la relazione si sviluppa esclusivamente nel contesto traumatico.

Sindrome di Stoccolma: le criticità del fenomeno

In assenza di un riconoscimento ufficiale della sindrome di Stoccolma all’interno del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali DSM-V o nei manuali di psicologia e psicopatologia, molti ritengono che il termine “sindrome” sia improprio per definire questo fenomeno. Infatti, nonostante sia molto chiacchierata nei media e nella narrativa popolare, la sindrome di Stoccolma non è riconosciuta ufficialmente come categoria diagnostica per una serie di motivazioni:

  1. È difficile stabilire criteri diagnostici univoci;
  2. Non esistono studi scientifici sufficientemente solidi per definirla come una patologia a sé stante;
  3. È considerata più un fenomeno situazionale che una vera e propria sindrome clinica.

I casi celebri

Oltre all’episodio di Stoccolma che le ha donato il nome, esistono una serie di altri casi divenuti celebri negli anni. Tra le vittime della sindrome, ricordiamo Patricia Hearst, l’erede di una ricca famiglia americana, che fu rapita nel 1974 dall’Esercito di Liberazione Simbionese (SLA). Dopo settimane di prigionia, non solo si unì ai suoi sequestratori, ma partecipò attivamente a una rapina in banca con loro. Un altro caso che vale sicuramente la pena menzionare è quello di Natascha Kampusch, che fu rapita a soli 10 anni dall’austriaco Wolfgang Přiklopil e visse in prigionia per otto anni. Dopo la fuga, mostrò atteggiamenti di compassione verso il suo rapitore, arrivando dapprima a dichiarare che sentiva la sua morte come una perdita e in un secondo momento a commettere il suicidio. Più recente e dibattuto in Italia è sicuramente quanto avvenuto in Kenya a Silvia Romano, la cooperante italiana rapita da Al-Shabaab e liberata dopo 18 mesi. Al ritorno in Italia, il suo atteggiamento sereno e la conversione all’islam hanno suscitato dibattiti sulla Sindrome di Stoccolma. Tuttavia, la sua conversione potrebbe essere stata una strategia di sopravvivenza più che un vero attaccamento psicologico.

Fonte immagine in evidenza: Depositphotos

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