Abitare la storia: idee per un vagare consapevole

Abitare la Storia: idee per un vagare consapevole

Ora che si intensificano le manifestazioni per restare abitanti delle proprie città, contro la turistificazione incontrollata, bisogna capire perché è bello abitare la Storia.

Tempo fa ero in campagna e, percorrendo quelle stradine tipicamente un po’ sgangherate sui cui lati s’allineano case di pietra scrostate dai portoni bassi e sbiaditi, m’è capitato di pensare alla Storia per un viandante assuefatto, alle città che non hanno cattedrali e al poeta Thomas Stearns Eliot.
Questa breve enumerazione caotica è più coerente di quanto si creda a prima vista: anzi, il trittico è ben saldo se lo si guarda in negativo ovvero come il positivo (la campagna e la sua apparente malinconica astoricità) che rimanda al suo negativo (la città e la sua compiutezza in storia monumentale) per spiegare questo e quello. Da lì mi si è aperta mentalmente la pagina del romanzo di Tempo di silenzio (1970, Feltrinelli) di Luis Martín-Santos, in cui vi è il famoso paragrafo sulla città di Madrid: il narratore esordisce dicendo che esistono «città così mal combinate […] che non hanno cattedrali». Un periodo lungo una pagina per dire che una città è il prodotto di una eterna stratificazione storica e che in misura maggiore o minore la nostra vita sociale conserva l’impronta di tempi passati. Noi, di quei tempi, ne portiamo il peso e nemmeno ce ne accorgiamo. E le cattedrali? Quale città, almeno in Europa, non ha oggi una cattedrale? Certo, il narratore in Tempo di silenzio parla di un preciso momento storico, e questo basterebbe a chiudere la questione, ma il bello della letteratura – della Parola – è il suo essere nicchia vuota di senso finché non vi si poggia su lo sguardo-lettore. Un’unica parola scritta e infinite letture che riattualizzano il morto scritto col loro senso.

Ieri, dunque, la cattedrale.
Questi titanici monumenti sono stati per lungo tempo ciò che Victor Hugo definisce il grande libro dell’umanità, così come altri esempi di architettura antica: ogni pietra che si erigeva era una parola, un simbolo, un geroglifico. In essi la legge geometrica e la legge poetica, prima che arrivasse Gutenberg, raccontavano al popolo la propria identità tra rilievi e scene scolpite. Abitare la Storia, prima, era rito inconfutabile. Quando questi furono così tanti che i monumenti non bastavano più a contenerli, allora il simbolo si espanse nell’edificio: l’architettura si sviluppò di pari passo col pensiero umano e fissò tutte le idee di un’epoca in forma visibile a tutti ed eterna. Poi arriva la stampa, la parola immediata e replicabile, e inizia la decadenza: l’architettura diventa un’arte come tutte le altre, non più la Sovrana; essa muore assassinata dal libro stampato, e noi abbiamo smesso di leggere riempiendo gli interstizi di pietra. Una città che non ha avuto una cattedrale, quindi, non ha avuto dal principio della sua infanzia una storia coagulata di tutte le esperienze individuali, non si è dichiarata storia di – perché la storia non è “ciò che è trascorso” ma ciò che “proviene da” – e non ha caricato, nei secoli, nella memoria di un uomo che passeggia nel suo centro cittadino, un’appartenenza. 

Oggi, dunque, il grattacielo.
Deterministicamente parlando, una città tanto mal combinata da non avere cattedrale, che individuo forgia? Mancherà egli in sostanza storica? E se prima era fatto eccezionale che una città non avesse cattedrale, non è oggi forse fatto comune? Conosciamo bene le migliaia di centri satelliti a ridosso delle grandi città o delle periferie che pur appartenendo a una città sembrano essere territorio a sé, con le proprie leggi morali ed estetiche. Cosa raccontano oggi queste cortine cubiformi di cemento, ordine e funzionalità? Un abitare la Storia del diniego. Allora pensavo, ecco, che se un uomo è l’immagine della città e una città le viscere al rovescio di un uomo, può l’individuo sopravvivere in un ambiente alienante e portarsi dentro, distrattamente, il peso di una storia che sembra essergli avversa ed estranea? Perché la questione è proprio questa: sento ancora la storia che hanno questi edifici, così come ne avverto il peso quando sono in una città che di Storie ne ha avute tante e sono tutte a vista sapientemente stratificate. Per qualcuno ciò è il peso della bellezza antiquaria, per altri è il peso di una storia monumentale che, come un anziano ripetitivo, ricorda che ai suoi tempi le cose importanti erano altre. Non ricordiamo mai, però, che anche gli edifici si possono leggere e di conseguenza non sappiamo che siamo pieni di ciò che di fisico ci lascia la Storia, carichi di ciò che vediamo e che ci lascia meno isolati di quanto pensiamo. Abitare la Storia senza consapevolezza è un’illusione che non possiamo permetterci.
Georg Simmel dice che l’individuo desidera proteggere l’originalità della propria esistenza di fronte a forze opprimenti come lo sono la civiltà o l’eredità storica. Il cittadino vanta un’intensificazione della vita nervosa derivante dalle molteplici impressioni: l’uomo, povero essere differenziale, non può conciliare consapevolmente le impressioni presenti e quelle che lo hanno preceduto. Abitare la Storia è anche una sfida contronatura. 
Allora ho iniziato a guardare con più attenzione anche in città e a leggere di quella lingua dello spazio dove gli edifici storici, i monumenti, le piazze, ne sono i suoi elementi deittici e predicativi capaci di parlare di una visione del mondo, di una cultura, di una antroposofia in divenire. La strada è diventata un cronotopo in cui riconosco criticamente gli elementi che mi porto dentro in quanto parte della Storia umana. Sono io, lettore-viandante, che scorro il dito sulle righe di questo universo semiotico.

Non si vuole qui arrivare, però, a quell’eccesso di storia verso cui Nietzsche metteva in guardia, soprattutto non a un eccesso di storia moralizzante e auto contemplativa che mummifica la vita. Non lasciate che i morti seppelliscano i vivi ma nemmeno che la percezione automatizzata da viandante vi lasci incosciente. Accantonate i musei, riconquistate la vostra geografia.

Thomas Stearns Eliot nel 1925 scrive Gli uomini vuoti (The hollow men) un poema dal caustico inizio: siamo gli uomini vuoti / siamo gli uomini impagliati / che poggiano l’un l’altro / la testa piena di paglia / Ahimè!. Questi versi mi sono tornati in mente proprio pensando a noi uomini che percorriamo distrattamente le nostre città cariche di eredità (anche la vita rurale gode certo di questa eredità benché meno immediata) ma che, contrariamente a quanto affermato dal poeta americano, ci rendono uomini pieni, anzi carichi e incatenati saldamente alla millenaria cresta montuosa dell’umanità. Siamo anche vuoti, ancora, ma questa è spesso una scelta. Sulla scorta di questo pensiero, allora, sulla via del ritorno dalla passeggiata in un paesino di campagna, mi sono divertita a ritradurre il poema al rovescio quasi a chiosare quella mia lunga riflessione nata in quei vicoli in cui la Storia sembra sempre sorvolare il Tempo, e in cui anche io ho avvertito quel fremito del senso sempre sfuggente, sempre indisturbato, ma che negli opposti toglie il velo agli edifici quotidiani.

Foto di Sonika Agarwal su Unsplash

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