Al fine di comprendere quanto spesso sia facile possedere e diffondere una storia unica su un popolo è utile analizzare come il femminismo bianco possa spesso cadere in nocivi stereotipi riguardo le questioni di genere. Il femminismo postcoloniale, a questo proposito, denuncia codeste visioni.
Cos’è il femminismo postcoloniale?
Per femminismo postcoloniale si intende un recente ramo del femminismo che iniziò a svilupparsi negli anni ’80 del XX secolo ed emerse principalmente dal lavoro dei teorici postcoloniali che esaminarono il modo in cui le diverse relazioni e sistemi coloniali e imperiali nel XIX secolo modellarono la percezione di sé di particolari culture. Nonostante il femminismo postcoloniale e gli studi postcoloniali affrontino tante tematiche comuni (come la questione della rappresentazione, la voce delle minoranze e l’emarginazione), la critica femminista postcoloniale sottolinea il fallimento delle analisi postcoloniali nell’evidenziare adeguatamente le questioni di genere e le problematiche che le donne non bianche devono affrontare, poiché si assume spesso una visione eurocentrica quando si parla di quest’ultime.
Il femminismo postcoloniale nasce come reazione al colonialismo e all’imperialismo, e volge una durissima critica alla generalizzazione operata dalle femministe bianche nell’individuazione dei meccanismi oppressivi di cui sono vittime. Questo tipo di lotta per l’uguaglianza risulta difatti parziale e non inclusiva, perché non si considera che nel mondo le questioni di genere presentano importanti differenze, e donne di altre religioni ed etnie subiranno un diverso tipo di oppressione. Le femministe postcoloniali sostengono che le culture colpite dal colonialismo sono di fatto molto diverse tra loro e devono essere trattate come tali. Inoltre, lottano affinché si possa combattere l’oppressione di genere nei propri modelli culturali e sociali, piuttosto che accettare quelli imposti dai colonizzatori occidentali come forme superiori. Il femminismo postcoloniale, pertanto, trascende la concezione occidentale di uguaglianza di genere e si può considerare un sottocampo della teoria intersezionale femminista.
I problemi del femminismo bianco
La scrittrice postcoloniale Mohanty, sociologa indiana e teorica femminista, mette in evidenza che la colonizzazione riguarda anche il piano del discorso, proprio quando i bianchi vogliono parlare di questioni che non subiscono personalmente, per poi porsi come salvatori del Terzo Mondo, in particolar modo circa le questioni di genere. L’errore di fondo delle femministe occidentali è considerare le donne del Terzo Mondo o del Sud globale come un gruppo omogeneo e monolitico, privo di potere, e vittima di uno specifico sistema culturale, senza tenere in considerazione la diversità di queste società. Per poter attivamente combattere la loro oppressione è fondamentale concettualizzarla e contestualizzarla all’interno di una specifica storia e comunità. Le donne non bianche vengono erroneamente percepite dal femminismo occidentale radicale e liberale in termini binari, come parte di una semplicistica dicotomia: da un lato le donne viste come oggetti deboli e abusati; dall’altro gli uomini come protagonisti del sistema patriarcale, oltre che legale, economico e religioso. Perseguendo questa visione binaria, si crede che per liberare le donne del Terzo Mondo sia sufficiente sovvertire le attuali dinamiche tra donna e uomo; tuttavia, la nuova società sarebbe strutturalmente identica. Il mero accesso delle donne al potere potrebbe non essere sufficiente a demolire gli esistenti meccanismi.
La tendenza generale del femminismo bianco è quella di giudicare le società del Terzo Mondo facendo riferimento agli standard occidentali. Mentre nella valutazione dell’oppressione della donna occidentale si tiene in considerazione la differenza di genere, nel caso della donna non bianca anche altri temi vi sono associati, come l’istruzione e la religione. La differenza giace nell’atteggiamento paternalistico verso queste donne, che viste come un unico omogeneo gruppo, sono considerate religiose, legate alle tradizioni, analfabete e rivoluzionarie, nonché spesso associate al terrorismo.
La colonizzazione non ha avuto sui paesi occupati solo conseguenze politiche ed economiche, ma nel rapportarsi al Terzo Mondo l’Occidente ne ha fabbricato delle immagini speculari a sé stesso, silenziando e rendendo invisibili le vittime dell’oppressione. L’Occidente produce immagini stereotipate del Terzo Mondo, come la donna casta o col velo, ponendosi lo scopo di salvare queste donne, le quali vengono definite come “altre” rispetto a quelle occidentali. La cultura occidentale viene d’altro lato concepita come superiore e più progressiva, le donne bianche come libere, capaci di autodeterminazione, istruite; questa visione è tuttavia incredibilmente nociva e viene utilizzata per giustificare la colonizzazione e per perpetrare una relazione di potere di matrice economica, etnica, sociale e culturale tra l’Occidente e il Terzo Mondo.
Importante è ricordare che prima del colonialismo e del femminismo bianco, le donne africane, ad esempio, non erano impotenti, anzi, nei confronti delle donne matriarche era nutrito grande rispetto, dovuto alla loro anziana età e non al loro sesso. La femminilità, per quanto imposta entro certi canoni alle donne bianche, venne strappata alle donne nere, le quali, viste attraverso lo sguardo bianco deumanizzante, erano percepite come sessualmente perverse ed incapaci di qualsiasi lavoro. Dunque, mentre il femminismo bianco si batteva per l’uguaglianza dei sessi, le donne nere avevano un’altra concezione di emancipazione: era fondamentale assicurarsi la sopravvivenza, combattere contro il razzismo e il colonialismo. Questo crea una voragine tra femminismo nero e bianco, di conseguenza Akob afferma: “It’s time we found african solutions to african problems”.
Il legame tra femminismo postcoloniale e femminismo nero
Il femminismo postcoloniale ha forti legami con il femminismo nero poiché entrambi si battono contro il razzismo e desiderano ottenere dignità e rispetto non solo da parte degli uomini della loro cultura, ma anche da parte delle femministe occidentali. Alcuni credono fermamente che il modo più corretto per le storiche femministe di affrontare le questioni di genere e della “razza” sia quello di basarsi sul modello della critica femminista nera, che prevede una decostruzione della figura della donna e dell’uomo nero, riconoscendo la fondamentale relazione tra “razza”, classe e genere.
Hazel Vivian Carby, professoressa Emerita di Studi Afroamericani e di Studi Americani, evidenzia come spesso il femminismo occidentale si riveli parte del sistema stesso di oppressione, nel momento in cui le esperienze delle donne nere vengono ignorate o paragonate a quelle delle donne bianche. Carby asserisce pertanto che le donne occidentali dovrebbero lasciare che le stesse donne nere raccontino la propria storia: “La storia delle donne nere è intrecciata con quella delle donne bianche, ma ciò non significa che siano la stessa storia. Né abbiamo bisogno di femministe bianche per scrivere la nostra storia per noi”.
Il rapporto fra le donne bianche e quelle nere non è alla pari, e alla base di questo rapporto giace come elemento strutturale il razzismo, la cui esistenza necessita di essere riconosciuta. È assurdo affermare che il tipo di patriarcato al quale le donne bianche sono state sottoposte sia lo stesso che ha oppresso le donne nere, che per secoli sono state vittime di uomini di differenti etnie. Si considerino ad esempio le moltissime donne nere che sono state relegate al ruolo di domestiche per badare alle famiglie bianche ed obbligate alla schiavitù sessuale da parte dei coloni.
Lo sguardo bianco è evidente quando si definiscono pratiche di mutilazione del corpo quali la circoncisione femminile come esclusive a paesi tradizionalisti, e residui di culture preindustriali. Ciò che viene ignorato è che, paradossalmente, queste pratiche si diffusero anche negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, proprio nel periodo di sviluppo del capitalismo industriale, come mezzo di controllo patriarcale sul corpo femminile. Le schiave nere venivano utilizzate come cavie in queste procedure, proprio per consentire lo sviluppo della medicina nei paesi occidentali capitalisti.
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