Filterworld e la bellezza algoritmica

Filterworld e la bellezza algoritmica

Lo scrittore Kyle Chayka ha coniato il termine Filterworld per descrivere l’abitudine, sempre più diffusa, a percepire il mondo fisico e digitale attraverso il filtro degli algoritmi; un processo, questo, che rischia di appiattire i gusti culturali.

«È l’olocausto del marketing, ogni minuto della nostra vita, 24 ore su 24, le entità del potere lavorano sodo per annientarci il cervello»: era Adrien Brody, nel film Detachment, e metteva in guardia i suoi studenti. Spenti, arresi, manipolati. La verità è bellezza e la bellezza è verità, ha detto qualcun altro, diversi secoli or sono.  Ma quanto è vera la bellezza, se è oggetto di marketing? Quanto è vera se i fruitori sono omologati e condividono tutti i medesimi paradigmi estetici?

The age of average

Nel 2023 Alex Murrell, Strategy director dell’agenzia Epoch, ha individuato le tappe di un processo silenziosamente e subdolamente in corso da anni; un processo per il quale ha coniato l’espressione Age of average, l’età della mediocrità.

Tutti ne siamo dentro fino al collo, tutti ugualmente trascinati a peso morto e illusi di trovarci in una passeggiata di piacere che ci sta facilitando la vita.

I consumi culturali sono ormai eterodiretti e selezionati dalle piattaforme sulla base di algoritmi. Tutta l’offerta culturale in cui inciampiamo, tra web e social, è impacchettata ad hoc per somigliare il più possibile a noi, personalizzata affinché incontri i nostri gusti.

Questo processo, che parte dalla profilazione dell’utente, ha fatto sì che il suggerimento degli algoritmi sostituisse il ruolo dei mediatori culturali, ormai pressoché inutili e costretti a reinventarsi.

La tendenza algoritmica ad appiattire gusti e mode è diventata talmente invasiva da permeare anche la realtà effettiva. Film, musica, arredamento, edifici, macchine, locali. Finanche l’aspetto fisico delle persone. Tutto risponde al medesimo stile estetico.

Da qui la definizione di filterworld.

Same old tired style

Kyle Chayka, sul The Guardian, si chiede:

«Everywhere you go, seemingly hip, unique spaces have a way of looking the same, whether it’s bars or restaurants, fashion boutiques or shared office spaces. How can all that homogeneity possibly be cool?». Una omogeneità, quella descritta da Chayka, che ha a che fare con l’inquietante sensazione di ritrovare lo stesso bar ovunque nel mondo.

Filterworld e la bellezza algoritmica

«Same old, same old tired style», borbotta Chayka. Ne parla nel suo libro Filterworld: How Algorithms Flattened Culture.

Tavolini in legno, luci a sospensione giallo caldo, grandi vetrate, stile minimal ma chic, spesso industrial chic.

Si tratta di uno stile che ha in sé un po’ di antico riadattato e alcune velleità di avanguardia poco originali; mira ad apparire autentico, essenziale, confortevole, ma soprattutto – ed è questa la parte più strategica – familiare.

Filterworld: come gli algoritmi appiattiscono la cultura

Lavoratori, turisti e nomadi digitali, proprio perché spinti dall’innata necessità dell’uomo di sentirsi misura di tutte le cose e di sentirsi a casa sempre e comunque, cercano nel mondo qualcosa che possano riconoscere senza doversi adattare; qualcosa di simile a quelle immagini che sono abituati a vedere sui social e che, anche inconsciamente, si portano dentro. Questa sensazione di familiarità rafforza il senso di appartenenza a una comunità globale e, di conseguenza, rafforza l’engagement dei consumatori.

Nella irrealtà virtuale l’apprezzamento si traduce in un crescente numero di condivisioni, quindi in approvazione da parte dei followers, quindi in interazioni; poi – ed ecco che si arriva all’apice della climax ascendente – in pubblicità. E la pubblicità è l’unica cosa che conta.

Così tutti impariamo a desiderare le stesse cose.

Un trend che dai caffè e dai locali è arrivato nelle case, nelle strutture ricettive, negli AirBnb.

Schwulst lo chiama Modern life space; Harvey preferisce definirlo International Airbnb, mentre per Chayka è AirSpace. L’antropologo Marc Augé, con un piglio più polemico, definisce “no-place” tutti gli edifici e gli ambienti che collimano con uno stile estetico – sempre lo stesso ovunque si guardi – efficiente, pulito, quasi sterile, insopportabilmente impersonale e inspiegabilmente rassicurante. Non luoghi.

In estrema sintesi, ciò che è bello si sta riducendo semplicisticamente a ciò che piace di più.

Filterworld: dall’arredamento alla chirurgia estetica

Dai luoghi alle persone, la medesima tendenza sta alimentando la propensione a considerare anche l’aspetto fisico una fonte di profitto, tanto più efficace quanto più è in grado di somigliare a quello che, unanimemente, è ritenuto bello e “instagrammabile”. A tal punto da convincere sempre più utenti a riscrivere i loro corpi nel tentativo di renderli conformi a ciò che suscita interesse.

Già nel 2022 American Academy of Facial Plastic and Reconstructive Surgery (ASPS) rilevava un aumento esponenziale – con una incidenza maggiore tra i giovani tra i 18 e i 25 anni – delle richieste di piccoli e continui ritocchi (neuromodulazione, rinoplastica, filler).

Colby Smith, make up artist delle celeb, spiega:

“The world is so visual right now and it’s only getting more visual and people want to upgrade the way they relate to it”

Filterworld e la bellezza algoritmica

Dentro al feed e fuori dal feed di Instagram la realtà è filtrata, finanche quella che ci portiamo addosso. A chi sostiene che stereotipi di bellezza che inducono a una certa uniformità livellante sono sempre esistiti, Smith risponde che il dato rilevante è che il modello di riferimento non è più la bellezza reale di personaggi dello spettacolo e del cinema dal mento perfetto o dalla bocca sensuale, bensì l’aspetto inautentico e artificioso ispirato dai filtri di Instagram.

Come se fossimo in una novella società della vergogna – secondo la nozione elaborata dall’antropologa Ruth Benedict per la cultura giapponese e poi associata alla cultura omerica – l’accettazione di sé e dei propri gusti culturali dipende dal numero di like, dal plauso sociale, dalla pubblica stima. Omero l’avrebbe chiamata timé. Dall’altra parte ci sono l’inadeguatezza e la vergogna.

The beauty is the untruth.

Fonte immagini: Freepik (https://www.freepik.com/free-photo/closeup-shot-cafe-wooden-table-with-jar-decorative-flowers-against-blurred-background_29505785.html)

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A proposito di M. S.

Laureata in Filologia, letterature e storia dell’antichità, ho la testa piena di film anni ’90, di fotografie e di libri usati. Ho conseguito un Master in Giornalismo ed editoria. Insegno italiano, latino e greco, scrivo quando ne ho bisogno e intervisto persone. Vivere mille vite possibili attraverso gli altri è la cosa che mi riesce meglio, perché mi solleva dalla pesantezza delle scelte.

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