Per i musulmani il consumo di vino è proibito. Eppure, durante il periodo abbaside, la letteratura araba vide fiorire un intero genere letterario chiamato khamriyya, dedicato proprio all’elogio del vino e dei suoi piaceri. Questo affascinante paradosso culturale rappresenta una delle forme più raffinate di trasgressione artistica nella storia.
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Il divieto del vino nell’Islam: perché è haram?
Secondo la legge islamica (la Shari’a), bere alcolici è haram, ovvero proibito e peccaminoso. Il Corano ha una posizione netta: sebbene un primo versetto presenti le bevande inebrianti come un dono di Dio (Sura 16), la rivelazione successiva cambia radicalmente atteggiamento. La Sura 2, versetto 219, afferma: «In entrambi [vino e gioco d’azzardo] c’è un grande peccato e qualche vantaggio per gli uomini, ma in entrambi il peccato è maggiore del beneficio!». Il motivo del divieto è quindi legato al fatto che l’alcol disturba la mente e la salute, portando a conseguenze negative che superano di gran lunga i piaceri momentanei.
Anche nella Sunna, i racconti sulla vita del profeta Muhammad accentuano il carattere peccaminoso del vino. Un hadith recita: «Il vino è maledetto da dieci punti di vista: […] colui che lo vende, colui che lo compra, […] colui che lo beve […]». Ma come rispose la letteratura a questo rigido divieto?
La khamriyya: la risposta trasgressiva della poesia
In opposizione alle regole imposte, i poeti dell’epoca abbaside (750-1258 d.C.) svilupparono la khamriyya, un genere interamente dedicato al vino. Il termine deriva dalla parola araba “khamr”, che significa appunto “vino”. Questa poesia divenne il simbolo della trasgressione verso la morale musulmana e del rifiuto dei canoni letterari tradizionali.
Vino nel testo sacro (divieto) | Vino nella Khamriyya (elogio) |
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È haram, un grande peccato che offusca la mente. | È una “vera medicina” che scaccia la tristezza e dà gioia. |
Associato al gioco d’azzardo e a pratiche maledette. | Associato a contesti raffinati come i majlis (salotti letterari). |
Allontana il fedele dalla preghiera e dal Paradiso. | È un mezzo per raggiungere l’ebbrezza e una forma di piacere sensuale. |
Un nuovo scenario: la città e la taverna
La khamriyya si distacca nettamente dalla Qasida, la forma poetica tradizionale araba, che era una lode politematica ambientata nel deserto. Il contesto della poesia del vino è invece urbano: taverne, locande e giardini dove si tenevano i “majlis”, incontri conviviali con canti e danze. In queste poesie, il vino diventa protagonista: ne vengono esaltati il colore, il profumo e l’effetto inebriante, e figure come la coppiera, la schiava che serve da bere, diventano spesso oggetto di desiderio, come accadeva nelle storie d’amore alla Majnun e Layla, ma in un contesto cittadino e licenzioso.
Abu Nuwas: il maestro della poesia del vino
Chi era Abu Nuwas? Abu Nuwas (756-815) è universalmente riconosciuto come il massimo esponente della khamriyya. Poeta di origine persiana vissuto a Baghdad, condusse una vita lussuriosa e dedita ai piaceri, sfidando apertamente la morale del suo tempo. Nelle sue opere, vino, amore (spesso omosessuale) e sensualità diventano i temi centrali. I suoi versi sono un perfetto esempio delle caratteristiche del genere:
“Risparmia dunque il biasimo, che suona come invito,
e curami piuttosto con vera medicina:
dorato è il fiele ambito che scansa ogni mestizia,
[…]
infonde al solo sguardo ebbrezza e sonnolenza.”
In questa poesia, ritroviamo tutti gli elementi tipici: la taverna, l’elogio del vino come cura per l’anima e la figura della coppiera, il cui sguardo inebria quanto la bevanda che serve. La khamriyya di Abu Nuwas intreccia costantemente il tema del vino con quello amoroso, creando una delle espressioni più audaci e raffinate della letteratura araba classica.
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