Salvatore D’Auria: Tito e il sisma dell’Ottanta | Intervista

Salvatore D'Auria: Tito e il sisma dell'Ottanta | Intervista

Oggi diamo la parola a un altro cittadino di Tito (PZ), Salvatore D’Auria, che ci racconterà la sua storia e ci parlerà di quel “mostro ballerino” che nel 1980 s’insinuò nella vita di lucani ed irpini, seminando morte e distruzione.

Si dice che la capitale del terremoto dell’Ottanta sia stata Lioni: i suoi artigiani videro cancellarsi in un minuto le loro piccole aziende e il lavoro di una vita. Appena dopo il sisma si contavano famiglie intere distrutte, decine di pazienti giovani e anziani travolti dalle macerie dell’ospedale di Sant’Angelo dei Lombardi e settantadue fedeli sepolti mentre pregavano nella chiesa di Balvano, che crollò interamente. Balvano, in Basilicata, divenne un comune senza passato e senza futuro, perché morirono la maggior parte degli anziani e dei bambini; si mutò in un paese morto, al di là della nebbia, strangolato tra terra e monti.

Altre protagoniste della catastrofe furono le rovine di Muro Lucano, Castelgrande, Teora, Baronissi, Castelnuovo, Pescopagano, Torella, Guardia dei Lombardi, San Mango sul Calore, Caposele, Calabritto. I morti restarono per giorni sotto le pietre e il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, dopo una visita alle aree colpite, sferzò i responsabili con dure parole di denuncia: «Italiane e italiani, sono tornato ieri sera dalle zone devastate dalla tremenda catastrofe sismica. Ho assistito a spettacoli che mai dimenticherò. Perché a distanza di quarantotto ore non si è fatta sentire la presenza dello Stato? Vi sono state mancanze gravi, non vi è dubbio. Tutti debbono mobilitarsi per andare in aiuto di questi fratelli!» E alla gente in lacrime promise: «Non vi abbandoneremo.»

Al fianco delle popolazioni colpite scesero in campo il commissario straordinario Giuseppe Zamberletti, i giornali con i propri inviati e i fotoreporter. Come era successo per altre tragedie nazionali e internazionali, la stampa aprì una sottoscrizione e si diede luogo a una gara di solidarietà senza precedenti.

Quelli che stiamo ritraendo furono giorni lunghissimi e colmi di disperazione, come ci raccontano i sopravvissuti nelle loro interviste, e non possiamo far altro che riconsegnarli alla storia fedelmente, acquerellati qua e là (ahimè!) con i colori lividi del dolore e della rabbia. Oggi diamo la parola a Salvatore D’Auria.

Il sisma dell’Ottanta, il caso di Tito

Intervista a Salvatore D’Auria (47 anni, operanio); a. 2015

(Si sono lasciati il più possibile invariati i modi di esprimersi e il “linguaggio” parlato usato dagli intervistati).

Cosa serba la memoria di Salvatore D’Auria del drammatico 23 novembre 1980?

Ero a casa di mio nonno Michele e ci trattenevamo in famiglia, come ogni domenica. Guardavamo la tv quando, improvvisamente, sentimmo tremare. Zia Antonietta fu la prima ad accorgersene e iniziò ad urlare, poi uscì fuori e tutti la seguimmo. Le pietre che cascavano dall’alto resero difficile la fuga e fortunatamente nessuno fu colpito. I pali della luce ondeggiavano, la polvere ci faceva respirare a malapena, le case di tutto il vicinato si frantumarono, mia sorella urlava, e io ridevo. Quando la scossa giunse al termine decidemmo di recarci lontano dalle abitazioni, al riparo dal pericolo, ma mio padre rientrò in casa a recuperare una valigetta personale, per timore degli sciacalli. Quando arrivammo alla “purtedda”, ci girammo per vedere cosa fosse rimasto del nostro paese: la luna piena illuminava un’immensa nube di polvere che celava le macerie e s’intravedevano i resti della Chiesa Madre in lontananza. Il campanile era sprofondato. L’angoscia per le ipotetiche morti accomunava chiunque. Accendemmo un falò e trovammo riparo in auto nei pressi del campo sportivo, dove vi erano altri rifugiati. Il susseguirsi di ulteriori scosse ci mantenne quasi sempre svegli. In circa trenta persone ci sistemammo in campagna per un paio di settimane. La vita si arrestò, non si andava a scuola e non si lavorava. Io non facevo altro che girovagare per curiosare tra le macerie.

Ponendo la suddetta data come spartiacque tra il “prima” e il “dopo”, secondo lei cosa è cambiato a Tito?

Oggi siamo cosmopoliti. Quando ero bambino esisteva “l’orgoglio del rione”: c’era competizione tra i vari quartieri di appartenenza, esisteva persino la squadra del rione. Si stava nel paese e si viveva di più. Non si abusava delle auto e i giovani uscivano a Tito, dove svolgevano qualunque attività, quindi non si spostavano altrove. Dopo il terremoto c’è stata molta richiesta nell’edilizia e in un secondo momento c’è stato il miraggio dell’industria. Le case sono state costruite strutturalmente secondo i criteri di sicurezza. In riferimento ai finanziamenti della legge 219 e a quelli destinati alle industrie, i “volponi” del nord hanno saputo fiutare l’affare. Questi ultimi – grazie alla compiacenza dei cialtroni politici del sud, che hanno permesso che i soldi stanziati nel meridione transitassero giù, ma tornassero nelle tasche di imprenditori d’industrie fallite al nord – sono venuti ad aprire fabbriche qui, hanno preso tutto quello che potevano e poi hanno chiuso. Ci hanno lasciato le cattedrali nel deserto, immensi stabilimenti in cui non lavora alcun dipendente. La ricostruzione è stata attuata, ma i nordisti ci hanno derubato con la compiacenza dei nostri politici.

Attualmente, come le sembra la situazione a Tito a trentacinque anni dal terremoto, sia dal punto di vista dell’aspetto urbanistico della città, sia da quello di una ricostruzione sociale?

A livello urbanistico, Tito è migliorato notevolmente: tutto è a norma di legge. Sono state rase al suolo case pericolanti e ricostruite con le più moderne tecnologie in uso ai tempi nostri. Hanno tentato di allargare le strade nei limiti del possibile (ma si poteva fare di più). A parer mio, era necessario radere al suolo tutto e ricostruire da capo.
Il terremoto ha portato benessere e sviluppo per le nuove generazioni, che hanno ottenuto una marcia in più per andare avanti, a differenza di coloro che avevano già vissuto la loro giovinezza e dovevano ormai solo godersi la pensione. Questi ultimi, purtroppo, con una casa distrutta e la vita stravolta, non sono morti il 23 novembre, ma sono deceduti di crepacuore mesi e anni dopo il terremoto, avendo visto i sacrifici di una vita sbriciolarsi insieme a tutto il resto. Comunque, c’è da dire che la società titese è andata evolvendosi come il resto d’Italia. Nei paesi lucani c’è stata sempre grande povertà, tant’è che la gente emigrava, ma se c’è un periodo in cui la popolazione è cresciuta a dismisura, è proprio il post sisma, momento in cui si è cercato di guardare fiduciosi al futuro. Oggi la storia si ripete: la gente scappa di nuovo.

Nello specifico, rispetto al 1980, oggi quali sono le condizioni del centro storico della città, la zona più colpita del sisma?

È tutto nuovo: strade, piazzette, sedili. Lo definirei un fiore all’occhiello, a livello urbanistico. Di storico si è conservato qualche portale ma le case, essendo state costruite così com’erano concepite in precedenza, non hanno alcun valore economico. Secondo me, i soldi potevano essere investiti ancora meglio.

La ricostruzione della Chiesa Madre sembra essere una grande delusione per la comunità titese. Perché e cosa si poteva fare di più?

Per me, la Chiesa Madre era l’unica vera opera d’arte esistente a Tito. Era enorme, bellissima, un incanto. Subito dopo il terremoto andai con amici a curiosare nella struttura disastrata e constatammo che era stata costruita sui resti di chiese cadute in precedenza, perciò si trovava su più livelli. Ecco perché per accedere alla Chiesa Madre bisognava salire una scalinata, che le tributava grande imponenza. I resti sotterranei venivano utilizzati per seppellire cadaveri (probabilmente gente del clero) perché sono state ritrovate ossa. Avendola visitata subito dopo il terremoto (perchè mi divertivo a curiosare tra le macerie, come raccontavo prima) posso affermare con certezza che era cascato solo il tetto di questa chiesa, che sprofondò il solaio, ma le mura erano intatte. Ecco perchè penso che, anziché demolire l’intera chiesa, si sarebbe potuto rifare il solaio, rinforzare le mura e rivalutare quella che era la nostra maggiore memoria storica.

 

Si ringrazia Salvatore D’Auria per la gentile partecipazione!

A proposito di Chiara D'Auria

Nata e cresciuta in Basilicata, si laurea in Filologia Moderna presso l’Università Federico II di Napoli. Scrive per abbattere barriere e scoperchiare un universo sottopelle abitato da anime e microcosmi contrastanti: dal borgo lucano scavato nella roccia di una montagna avvolta nel silenzio alle viuzze partenopee strette e caotiche, dove s'intravede il mare. Scrive per respirare a pieni polmoni.

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