Tito, il sisma dell’Ottanta – Intervista a Rocchina Giosa

TITO Rocchina Giosa

Oggi sarà Rocchina Giosa, cittadina lucana di Tito (Pz), a portarci indietro nel tempo.

Il 23 novembre fu una domenica di caldo insolito. In novanta secondi, due scosse diedero luogo a feriti, morti e disperazione. La prima, furibonda, si avvertì alle 19.36. I telegiornali della sera fecero in tempo a dare la notizia, ma nessuno aveva idea di quanto fosse grande la tragedia. Alle 20.00 si parlava di qualche decina di morti, appena un’ora dopo erano già centinaia. Le comunicazioni risultavano difficili o impossibili. Le scarse notizie erano affidate, in molti casi, alla sola voce dei radioamatori.
Ciò che maggiormente colpì gli inviati di tutti i giornali e le televisioni d’Italia fu il fatto che ad essere danneggiata era una popolazione che aveva sempre scontato una condizione di arretratezza e di totale carenza dei più elementari servizi e infrastrutture.
Si è trattato del terzo terremoto in ordine di gravità nel XX secolo in Europa: la scossa, di magnitudo 6,8 della scala Richter, ha avuto una forza che può definirsi pari all’energia di dieci, quindici bombe atomiche, come quelle sganciate nella seconda guerra mondiale su Hiroshima e Nagasaki.
L’epicentro del sisma si trovava nelle profondità sottostanti al complesso montano del Cervialto (m. 1809) e, quindi, fu investito per primo e più violentemente il centro dell’Appennino campano e lucano.
A Potenza, si legge sui giornali dell’epoca, le immagini furono quelle della Grande Peste. Le strade deserte, i negozi chiusi e l’esodo. A vernice rossa, sulle porte delle case, c’era scritto “Sì” oppure “No”. Per ogni “Sì” vi era una presunzione di abitabilità e per ogni “No” un decreto di chiusura. Le case rimasero quasi tutte vuote. Il livello di disordine e la mancanza di coordinamento arrivarono ad uno stadio inaudito. La gente si contese i primi rifugi di fortuna con aspre discussioni, mentre si guardava con invidia e rabbia una roulotte celeste parcheggiata nei pressi degli uffici provvisori del Comune, riservata al Sindaco, laddove ci sarebbe dovuto essere il cuore pulsante dei soccorsi in Basilicata.
A peggiorare le cose arrivò il maltempo che, con una bufera di pioggia e vento, fece crollare molti edifici lesionati, trasformò le strade in torrenti e le tendopoli in pantani. Quando la bufera si placò, in quei giorni, si visse al freddo, nel fango, nelle tende o nelle automobili, battendo i denti, piangendo e stringendosi l’un l’altro per darsi calore.
Potenza fu definita città fantasma. La maggior parte dei cittadini effettuò una vera e propria fuga verso i campi sportivi, le colline che fronteggiavano il centro antico, la seconda casa al mare o la campagna. La città si svuotò letteralmente.
Per quanto concerne il caso titese, la vera tragedia del terremoto è rappresentata dalla perdita del focolare domestico perché, fortunatamente, non ci furono morti, ma senza casa l’uomo è indifeso, come una tartaruga che non ha più il suo guscio.
La storia di Tito è un piccolo frammento di questa realtà e nessuno, meglio di chi l’ha vissuto in prima persona, può rendere il dolore e lo smarrimento di un tale dramma umano.

Il sisma dell’Ottanta, il caso di Tito

Intervista a ROCCHINA GIOSA (48 anni, casalinga); a. 2015

(Si sono lasciati il più possibile invariati i modi di esprimersi e il “linguaggio” parlato usato dagli intervistati).

Cosa serba la sua memoria del drammatico 23 novembre 1980?

Ero appena tredicenne, ma i ricordi di quella sera sono ancora vivi e impressi nella mia mente. Ci fu una bella giornata di sole il 23 novembre del 1980. Trascorsi il pomeriggio nel vicoletto di casa a chiacchierare con una delle mie amiche e l’aria calda e tranquilla mi fece trattenere fuori fino a tardi, cosicché rientrai a casa per cena. Ero a tavola insieme ai miei genitori, mentre i miei fratelli, più grandi, erano ancora in giro, quando improvvisamente vidi mia madre agitarsi e dimenarsi come una trottola dal tavolo verso il balcone, farfugliando: «Trema, trema!» Io, incosciente, sorridevo, ma la serietà dei miei mi fece presto realizzare che qualcosa di tragico stava per succedere. Fu così che alle 19.34 assistemmo a quella che sarebbe stata la catastrofe più grande di quel tempo. La terra cominciò a tremare così forte da impedirci la fuga. Dalle altre abitazioni si dirupavano massi e questi cascavano nel vicoletto, verso di noi, che restammo bloccati sulla soglia di casa, abbracciati l’uno all’altro, increduli e impotenti. Di lì a poco fu caos totale. La gente per strada, le auto bloccate, la mancanza d’illuminazione, le macerie e la polvere provocarono in me un senso di disorientamento totale.
Ricordo gli abbracci delle persone, felici per il pericolo scampato, per essere ancora vivi. Felicità che svanì col sorgere del sole il giorno seguente, quando ognuno, dopo aver trascorso la notte nelle campagne vicine o nelle piazze del paese, si rese conto della gravità dei danni. Felicità che si trasformò in dolore, in un’angoscia inspiegabile. Si riconoscevano a stento le proprie case, tutte devastate da enormi lesioni, con soffitti crollati, pavimenti sprofondati e suppellettili distrutte da pietre e calcinacci. Il senso di vuoto, lo smarrimento e un assurdo silenzio gelavano il cuore di chi vagava come un fantasma tra le macerie. Non ci volle molto per capire che sarebbe stato necessario più di qualche anno per tirar su il paese, così la paura cedette il posto alla rassegnazione. Ricordo ancora i difficili mesi (anzi, anni!) che successero a quella maledetta sera: la chiusura delle scuole (mutate in dimore per gli sfollati) e il disperdersi delle persone per i trasferimenti nelle campagne o in alloggi di fortuna. Sono stati lunghi anni quelli, anni di confusione e immensa solitudine.

Ponendo la suddetta data come spartiacque tra il “prima” e il “dopo”, secondo lei cosa è cambiato a Tito?

Tutto. Per iniziare, la conformazione del paese, a distanza di trentacinque anni si è ingrandito tantissimo. Ha cambiato l’abito, non ci sono più case accostate le une alle altre, arroccate intorno al campanile. Tito oggi è variopinto, le nuove infrastrutture sono caratterizzate da colori vivaci. Sono cambiati i titesi, che hanno modificato di molto le loro abitudini. È vero, quella data ha fatto da spartiacque, “prima del terremoto” e “dopo il terremoto”, ne è evidente proprio la diversa concezione di vita sociale. Il sisma ha lasciato campo libero alla modernità. Inoltre, prima Tito viveva prevalentemente di agricoltura, pastorizia, artigianato e manovalanza, poi si è passati all’edilizia e addirittura all’industria.

Attualmente, come le sembra la situazione a Tito a trentacinque anni dal terremoto, sia dal punto di vista dell’aspetto urbanistico della città, sia da quello di una ricostruzione sociale?

Oggi Tito può definirsi “nuovo” apparentemente, ma sussistono tante lacune. Sono state ricostruite molte case, rese sicure tante altre, sono sorti rioni nuovi, ma non si è data importanza al rifacimento di reti fognarie e idriche, all’allargamento di strade, alla creazione di aree verdi e di più servizi, dal momento che la popolazione è cresciuta per via delle fabbriche installate. Per quanto riguarda la ricostruzione sociale, ci si è impossessati di case nuove, più sicure, belle e moderne, ma non credo sia più un paese come quello di prima Tito. Ha perso molto in tradizione e solidarietà, proprio a causa della dispersione sociale, della promiscuità e dell’affollamento, conseguenze del terremoto.

Nello specifico, rispetto al 1980, oggi quali sono le condizioni del centro storico della città, la zona più colpita del sisma?

Le condizioni attuali del centro storico non sono delle migliori. È vero che il centro è stato ricostruito materialmente, ma socialmente è morto e credo che non vivrà mai più come prima dell’Ottanta. Era quello il cuore pulsante di Tito. Non era il centro storico, era il centro e basta. C’era la lunga chiacchierata in tranquillità, il vicinato, la solidarietà, la pace, la rissa, tutto, tranne la solitudine e l’indifferenza che, dopo il terremoto, ci hanno fatto conoscere gli anni della modernità. Il centro storico è diventato un ghetto abitato da pochi reduci autoctoni e il rimanente delle abitazioni è occupato da extracomunitari presenti da molti anni nel nostro tessuto sociale. Quindi, per forza di cose, si sono sconvolte le tradizioni del posto.

La ricostruzione della Chiesa Madre sembra essere una grande delusione per la comunità titese. Perché e cosa si poteva fare di più?

Per tutti noi la chiesa nuova è stata una delusione. La vecchia, in pietra e imponente, era dotata di un campanile suggestivo rispetto all’attuale. Nella Chiesa Madre si svolgeva la funzione di qualunque occasione: battesimi, cresime, matrimoni, messe domenicali e serali (ad eccezione dei funerali, che si celebravano in Convento), ragion per cui la comunità titese era particolarmente legata a quel posto e oggi stenta, nostalgica, a riconoscerlo. La chiesa odierna è molto ridotta. Sorge su piano terra, a differenza della precedente, e dà l’idea di un’aula-riunioni, priva di ogni segno d’arte. In compenso però, è molto più sicura.

 

Si ringrazia Rocchina Giosa per la gentile partecipazione!

A proposito di Chiara D'Auria

Nata e cresciuta in Basilicata, si laurea in Filologia Moderna presso l’Università Federico II di Napoli. Scrive per abbattere barriere e scoperchiare un universo sottopelle abitato da anime e microcosmi contrastanti: dal borgo lucano scavato nella roccia di una montagna avvolta nel silenzio alle viuzze partenopee strette e caotiche, dove s'intravede il mare. Scrive per respirare a pieni polmoni.

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