Pete Pistol Maravich: un marziano in villeggiatura sulla Terra

Pete Pistol Maravich

Pete Pistol Maravich, essenzialmente un alieno annoiato, venuto sul nostro pianeta per darci un assaggio della pallacanestro del 2030

Lunga chioma di capelli arruffati; lineamenti delicati che tradivano un’evidente origine slava; calzettoni indossati rigorosamente fino alle ginocchia; visione del mondo quanto meno pittoresca e un talento nel dipingere pallacanestro sul parquet che il grande Naismith – sempre sia lodato – non sarebbe riuscito ad immaginare neanche in dieci vite. Una descrizione sommaria, certo, ma che in qualche modo può riuscire a farci entrare in punta di piedi nella vita di quest’uomo del tutto unico nel suo genere: Pete Pistol Maravich, una sorta di Ford Prefect (celebre personaggio extraterrestre della fortunata catena di libri Guida Galattica per Autostoppisti”)  in pantaloncini da basket, venuto sulla terra per raccogliere informazioni sui terrestri e, all’occorrenza, farli evolvere da quel modo rozzo che avevano di stare al mondo.

Pete Pistol Maravich: le origini

Questo figlio di seconda generazione della madre Serbia fu tra i giocatori più incredibili ad aver mai calcato un palcoscenico NBA. Non necessariamente il più forte in assoluto, ma quasi certamente quello ad aver ricevuto in dote più talenti da Nostro Signore.

Pete era figlio di un ex pilota di aerei militari che, per amore della moglie Helen – già rimasta vedova del primo marito – aveva lasciato la carriera militare per darsi anima e corpo alla sua vera passione: la pallacanestro. Come coach, Pres Maravich non ottenne il successo che forse avrebbe meritato. Eppure un traguardo prestigioso lo ottenne, durante gli anni a disegnare schemi sulla lavagnetta. Arrivò ad allenare un futuro All American: suo figlio, Pete. Pres aveva un sogno: fare del proprio figlio il giocatore più forte ad aver mai tenuto un pallone in mano. Già, a proposito…

Avete presente i padri che mettono la palla in mano ai figli fin dalla culla? Ecco, per essere sicuro, Pres, la palla a spicchi, l’aveva data in mano ad Helen già dai primi mesi di gravidanza. Così, per far già prendere confidenza al bambino con quello che sarebbe presto diventata la sua migliore amica per la vita.

Un padre maniacale

Gli allenamenti a cui Pete venne sottoposto quando era piccolo oggi forse sarebbero considerati maltrattamento di minore. Pres lo costringeva a palleggiare, o almeno a cercare di farlo, in ogni situazione. Con i guanti sotto la neve, sotto la pioggia, oppure dal finestrino della macchina, mentre quest’ultima girava per il quartiere. O ancora, con una benda sugli occhi che non gli permetteva di distinguere il giorno dalla notte. Eppure, Pete palleggiava; alla fine ci riusciva sempre. Gli allenamenti di papà erano duri, talvolta incomprensibili, ma il giovane Pete non li avrebbe mai rinnegati e se li sarebbe portati dietro anche negli anni a venire.

Gli anni passavano in fretta e quel nano con il cespuglio di capelli in testa diventava sempre più forte. Per testarlo, papà gli mandava contro i senior della sua High School e Pete, a 10 anni, o poco più, spesso gli dava sonore lezioni. Una sola parola: predestinato. Lo sapeva papà e lo avvertiva probabilmente anche lo stesso Pete. Il quale, da lì a poco, avrebbe ricevuto anche il soprannome che lo avrebbe accompagnato per il resto della sua esistenza.

La nascita di Pistol

Il ragazzo stava sì crescendo in altezza, ma il fisico e soprattutto le braccia rimanevano ancora quelli di un sollevatore di coriandoli. Per questo motivo, quando doveva tirare – e tirava spesso – era costretto a far partire il tiro non dal gomito, bensì dall’anca destra, come dovesse estrarre la pistola dalla fondina durante un duello tra cowboys del vecchio west. Era nato Pistol Pete. E come insegna l’avvocato Federico Buffa: “Se un soprannome te lo danno bene è il più grande regalo che possano farti”.

Nel frattempo papà Pres aveva ottenuto l’incarico da coach a LSU University, riuscendo anche a far concedere al figlio una borsa di studio. Pete giocò quattro anni al college che difficilmente potrebbero essere spiegati senza l’ausilio delle immagini e forse neanche con quelle. Avrebbe chiuso l’anno da senior con 44 punti di media. Non c’era ancora il tiro da tre punti all’epoca e la maggior parte dei suoi tiri partivano tutti da 8/9 metri. Un pioniere assoluto del gioco, senza se e senza ma.

L’NBA arrivò presto a bussare alla sua porta. Scelse di andare ad Atlanta e di indossare la maglia numero 44. Perché proprio la 44, direte voi? Beh, ovviamente 44 come i suoi punti di media all’ultimo anno al college. Cosa vi aspettavate da uno che era stato cresciuto per essere il migliore, umiltà e scarsa personalità?

L’approdo in NBA

Eppure, il Pistol che avrebbe iniziato a giocare in NBA non si sarebbe mai più avvicinato a quello di quell’ultima stagione al college. Era sempre spanne su tutti, certo, ma talvolta appariva indolente, alienato dal resto. Difficilmente tirava fuori le prestazioni che lo avevano reso celebre in tutto il paese. Quei 4 anni passati ad Atlanta furono probabilmente i più tristi della sua vita. C’era qualcosa che stava grattando sotto la superficie e nessuno se n’era accorto. Da lì a qualche tempo sarebbe morta mamma Helen, suicida. Quella perdita devastò Pete più di quanto non volle ammettere persino a sé stesso. Divenne ben presto un alcolizzato e si alienò dal mondo più di quanto non facesse prima. Iniziò a vivere nascosto da sguardi indiscreti, finì per allontanare tutti, anche il coach della sua vita, papà Pres. Si fece crescere la barba, simile a quella di un santone eremita, si avvicinò sempre di più a teorie complottiste e iniziò a credere nell’esistenza degli alieni.

Di Pete Maravich, il ragazzo che palleggiava con i guanti in mezzo alla neve, forse, non era rimasto poi molto. Il suo alter ego, Pistol, aveva ormai definitivamente preso in mano il timone del Titanic che era diventata la sua vita.

Rinascita?

Ma la sua parabola nel Basket non si era ancora esaurita. Pistol era ancora un assoluto fuoriclasse. Decise di lasciare Atlanta e di accasarsi a New Orleans, con i Jazz. E lì iniziò una vera e propria seconda vita, fatta di cambiamenti sostanziali. Via la barba e il numero 44. Da quel momento in poi avrebbe avuto una rasatura perfetta e avrebbe indossato il numero 7.

7, il numero della completezza e come il numero dei doni dello Spirito Santo nella religione cristiana. Già, perché nel frattempo, a sua detta, Dio gli era apparso in sogno e lui si era convertito alla religione cattolica. Dopo anni di vuoto cosmico ad Atlanta, Pistol ritrovò per qualche tempo sé stesso. Come il suo nuovo numero di maglia presagiva, si sentì nuovamente completo, nuovamente in grado di prendere in mano la sua vita. E incantò tutti. Furono quelli gli anni della sua personalissima rivoluzione copernicana. Gente come Magic, Petrovic e per ultimo Stephen Curry è a lui che si sono ispirati e senza la sua incredibile influenza non sarebbero diventati i giocatori che sono diventati. A cavallo tra gli anni ’70 e ’80 faceva delle cose che non faceva nessuno a quei tempi: passaggi no-look o dietro la schiena, tiri da 8/9 o addirittura 10 metri, entrate controtempo a canestro, coast to coast conclusi con un’eleganza che poteva appartenere solamente ad uno iniziato del gioco.

Spesso, quando faceva partire un tiro da fuori – ovviamente non prima di aver estratto alla velocità della luce la pistola dalla fondina posta vicino all’anca destra – neanche guardava il canestro. Sapeva già come sarebbe andata nella scena seguente di quel film western. Si metteva sempre nelle condizioni di essere il regista, lo sceneggiatore e pure l’attore protagonista di quella pellicola e non avrebbe mai permesso al suo personaggio di perdere un duello all’ultimo sangue contro nessuno.

Pete Pistol Maravich: un apice durato poco

Un giorno di febbraio del 1977 ne mise 68 al Madison Square Garden contro i Knicks che, chissà perché, in momenti come questo, si ritrovano sempre dalla parte sbagliata della storia.

Vinse la classifica dei realizzatori per quell’anno, con 31 punti di media. Quella fu senza ombra di dubbio la sua migliore stagione in carriera in NBA. Ma il suo fisico era fragile, troppo fragile. E, prima che il mondo potesse accorgersi dell’avvento degli anni ’80, Pete poteva già considerarsi un ex giocatore. Non prima, però, di aver fatto una comparsata in maglia Celtics, di nuovo con il numero 44, insieme ad un biondo campagnolo che era stato appena scelto al Draft: tale Larry Bird.

Pete avrebbe appeso le scarpe al chiodo poco tempo dopo. Lo avrebbe fatto senza troppi rimpianti, se pur con un velo di tristezza ad accompagnarlo. Non era diventato il giocatore che papà Pres sperava. Non era riuscito a diventare il giocatore più forte del mondo. Ma semplicemente perché non ne aveva avuto voglia e perché il basket, a un certo punto, aveva finito per stufarlo. D’altronde, 40 anni trascorsi vivendo solamente per la palla a spicchi avrebbero finito per stancare chiunque. Già, 40. Perché 8 anni dopo il suo ritiro, nel 1988, Pistol Pete, il cowboy che non aveva mai perso un duello, esalò l’ultimo respiro.

La scomparsa di un iniziato

Si trovava in una palestra liceale insieme ad alcuni giornalisti. Si mise a giocare come non faceva da tempo, forse come non faceva da quell’ultimo anno al college. Era tornato il marziano. Era tornato Pistol Pete. La palla, la faceva partire sempre dall’anca destra e, dopo ogni colpo di pistola, il canestro, ovviamente, non lo degnava neanche di uno sguardo. Sapeva già che la sua pistola non avrebbe mai fatto prigionieri.

Ad un certo punto, però, prese la palla tra le mani, smettendo per un attimo il suo personalissimo tiro al bersaglio; si avvicinò a una fontanella per bere. E quello, sarebbe stato anche l’ultimo sorso d’acqua che avrebbe mai bevuto. Si accasciò al suolo, esanime.

Pete “Pistol”  Maravich era morto, riverso sul parquet, con la palla da basket di fianco, quasi come avesse riposto, per l’ultima volta, la pistola nella fondina.

Pete Pistol Maravich: dalla fine, l’inizio

Si scoprì che gli mancava la coronaria sinistra fin dalla nascita. Quel bambino non sarebbe dovuto arrivare a compiere 8 anni. Eppure, da piccolo si era sottoposto ad allenamenti estenuanti ed era riuscito ad arrivare, da grande, a giocare al più alto livello di basket sul pianeta. Aveva compiuto i 40 anni e se n’era andato facendo quello per cui era venuto al mondo: dipingere pallacanestro.

Era la fine di un uomo che era stato destinato dalle stelle a cambiare per sempre la concezione della pallacanestro così come la si conosceva al tempo. Era apparso dal nulla e dal nulla se n’era andato, senza preavviso.

Aveva finito dove tutto era iniziato, con l’amica di tante avventure al fianco e proprio su quel campo che simboleggiava idealmente quello sotto casa, dove si allenava a palleggiare sotto la neve, con papà al seguito, il quale adesso lo stava guardando da lassù.

Disclaimer: questo testo è stato ispirato da un episodio de “LNBA dei vostri padri” di Federico Buffa

Fonte immagine in evidenza: Wikimedia Commons

( https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Guerin_and_maravich_hawks_1970.jpg)

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