Rumore bianco di Danilo Napoli | Recensione

Rumore bianco di Danilo Napoli | Recensione

La stagione 2024/2025 della Galleria Toledo di Napoli volge quasi al termine e tra gli ultimi spettacoli viene messo in scena Rumore bianco di Danilo Napoli, una riflessione bizzarra e profonda sulle donne transgender

Nella mente del serial killer: tra vittima e carnefice

Rumore bianco di Danilo Napoli richiama già dal titolo un rumore in sottofondo, sospeso, sottile ma presente, come di una tv non sintonizzata. Al telegiornale risuona la notizia, l’ennesima, di un’altra vittima di un ignoto serial killer: ancora una volta si tratta di una donna transgender. Ed ecco che sulla scena quello stesso serial killer si palesa, spavaldo e per niente intimorito si presenta al pubblico nella sua essenza. Accanto a lui, il corpo inerme della madre, un manichino senza vita, alla quale egli si confessa raccontando la sua prima vittima. Si tratta di Rossella, che ha scelto di diventare tale difendendo la propria autentica identità di genere.

Pertanto, Rumore bianco di Danilo Napoli si dipana come una confessione bizzarra, paradossale, quasi tragicomica, durante la quale gli spettatori sono chiamati a immedesimarsi nella mente contorta del serial killer. Quest’ultimo, nel frattempo, con la sua narrazione crea confini sospesi e inestricabili tra la propria figura e quella della vittima, tanto che diventa impossibile scindere le due figure. La storia di Rossella, donna transgender, diventa anche quella dei desideri più reconditi del serial killer, facendo riemergere traumi e dolori radicati. Lo spettacolo è scritto e diretto da Danilo Napoli, con la regia di Yari Gugliucci per una produzione Vitruvio Entertainment e Nova Civitas Società Cooperativa.

Rumore bianco di Danilo Napoli e la denuncia contro l’omofobia e la transfobia

Rumore bianco di Danilo Napoli è un monologo che ha del surreale, riuscendo in questo suo carattere singolare a toccare temi di attualità fondamentali come l’omofobia e la transfobia. Infatti: «Questo monologo non è altro che una confessione disperata e bizzarra, a tratti addirittura esilarante, in grado di farci ridere e poi piangere nel giro di pochi secondi. È un viaggio nella mente contorta di una persona disturbata che diventa i personaggi che racconta, e che tra un colpo di scena e l’altro ci parla di cattiveria umana, di scelte forzate, di omofobia e transfobia e della linea sottile che separa vittima e carnefice» – si legge nella sinossi.

La peculiarità di Rumore bianco di Danilo Napoli sta proprio nel non trattare questi argomenti attraverso le vittime, né all’opposto tramite l’esclusiva mente del serial killer. Anzi, il punto nevralgico consiste nell’assimilazione di entrambe le parti, nel confonderle fino a farle diventare un’unica storia, una sola denuncia contro un’odio spietato e malvagio. Il dolore di Rossella nel suo cammino di rivelazione accettazione del sé diventa lo stesso di quell’identità stroncata del serial killer. Con questa simbiosi grottesca, esilarante e tragica allo stesso tempo, emerge un’identità soffocata dai pregiudizi, dal fanatismo religioso, da ideologie prive di amore.

Il teatro come catarsi, un esercizio di empatia e responsabilità

Rumore bianco di Danilo Napoli innesca un procedimento catartico. Non si limita a rappresentare la mente del serial killer, ma chiama ciascuno spettatore a immedesimarsi fino quasi a identificarsi, interrogato, provocato  e coinvolto in un confronto etico e personale. Quasi disturbato da un’inquietudine di sottofondo irrisolvibile, il pubblico si insinua in una mente contorta verso la quale prima giudica e poi empatizza, assorbendo quelle tanto lucide quanto surreali sofferenze. Finanche la scenografia esigua e l’illuminazione di luci e ombre proiettano in una dimensione di irrequietezza, di angoscia. Una potenza che consente di sviluppare un esercizio di empatia.

Ed è da questa stessa empatia che Rumore bianco di Danilo Napoli riesce a infondere anche, e soprattutto, un messaggio di responsabilità. In una messinscena intensa, essenziale, ogni elemento all’apparenza scarno si riveste di significato contribuendo a costruire un’esperienza sensoriale profonda. Grazie a ciò, si tratta molto di più di uno spettacolo teatrale, ma anche di un grido che dal palcoscenico vuole raggiungere le coscienze di ciascuno.

Fonte immagine di copertina: Ufficio Stampa

 

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A proposito di Francesca Hasson

Francesca Hasson è giornalista pubblicista, iscritta all’Albo dal 2023. Appassionata di cultura in tutte le sue declinazioni, unisce alla formazione umanistica una visione critica e sensibile della realtà artistica contemporanea. Dopo avere intrapreso gli studi in Letteratura Classica, avvia un percorso accademico presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II e consegue innanzitutto il titolo di laurea triennale in Lettere Moderne, con una tesi compilativa sull’Antigone in Letterature Comparate. Scelta simbolica di una disciplina con cui manifesta un’attenzione peculiare per l’arte, in particolare per il teatro, indagato nelle sue molteplici forme espressive. Prosegue gli studi con la laurea magistrale in Discipline della Musica e dello Spettacolo, discutendo una tesi di ricerca in Storia del Teatro dedicata a Salvatore De Muto, attore tra le ultime defunte testimonianze fondamentali della maschera di Pulcinella nel panorama teatrale partenopeo del Novecento. Durante questi anni di scrittura e di università, riscopre una passione viva per la ricerca e la critica, strumenti che considera non di giudizio definitivo ma di dialogo aperto. Collabora con il giornale online Eroica Fenice e con Quarta Parete, entrambi realtà che le servono da palestra e conoscenza. Inoltre, partecipa alla rivista Drammaturgia per l’Archivio Multimediale AMAtI dell’Università degli studi di Firenze, un progetto per il quale inserisce voci di testimonianze su attori storici e pubblica la propria tesi magistrale di ricerca. Carta e penna in mano, crede fortemente nel valore di questo tramite di smuovere confronti capaci di generare dubbi, stimolare riflessioni e innescare processi di consapevolezza. Un tipo di approccio che alimenta la sua scrittura e il suo sguardo sul mondo e che la orienta in una dimensione catartica di riconoscimento, di identità e di comprensione.

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