C’era una volta il Beat italiano: un viaggio nei colorati anni ’60

copertina rocket di C'era una volta il beat

Un suono, un’epoca, una rivoluzione, il Beat italiano torna raccontare la sua storia nel documentario di Pierfrancesco Campanella.
Il cineasta romano, vuole rendere omaggio ad una corrente musicale che ha lasciato un’impronta indelebile in Italia, segnando un’intera generazione. Distribuito nelle sale italiane dalla Parker film Srl dal 21 novembre 2024,
C’era una volta il beat italiano è un documentario che ci riporta indietro nel tempo, in un periodo storico che ha profondamente trasformato la cultura musicale e sociale del nostro paese.

La nascita della musica beat: suono, ribellione e moda

La musica beat nasce nel Regno Unito alla fine degli anni ‘50, per poi diffondersi in Europa e negli Stati Uniti nel decennio successivo, grazie al genio artistico di gruppi come i Beatles e i Rolling Stones. Ritmi veloci, suoni distorti, testi semplici ma fortemente evocativi caratterizzano uno stile musicale capace di unire l’attitudine contestataria del rock con la sensibilità tipica della musica popolare.

Il movimento beat italiano era molto più di un semplice genere musicale, era un modo di vivere che credeva nella libertà di espressione, rifiutando le convenzioni sociali che avevano caratterizzato l’Italia del dopoguerra. Chi aderiva a questo movimento, lo faceva anche tramite il vestiario: capelli lunghi sugli uomini e minigonne sulle donne, gradualmente diventarono il quotidiano. Si trattava di elementi che non rappresentavano soltanto il cambio delle mode, bensì un simbolo visibile di ribellione. La musica Beat rifletteva i fermenti culturali di un’Italia che si trovava nel boom economico, dove i giovani reclamavano la possibilità di un ruolo centrale nella società e nei nuovi strumenti di comunicazione come la televisione o la radio.
Dunque, il beat si trasformò in un mezzo di espressione che permetteva ai giovani di contestare un sistema fatto di istituzioni troppo antiquate per rispecchiare i loro ideali, trovando nella musica un linguaggio universale.

Un documentario che racconta il Beat italiano in tutte le sue sfaccettature

Il documentario di Campanella, C’era una volta il Beat italiano, sebbene di breve durata, racconta l’arrivo di un nuovo genere in Italia attraverso il successo e le difficoltà che gruppi e singoli cantanti hanno dovuto affrontare per poter emergere in un panorama musicale statico. Si parla di gruppi stranieri come i Rokes, i Primitives e i Casuals,  delle genesi artistiche di Adriano Celentano, Lucio Dalla e i Nomadi,  ma anche dell’affermazione di icone femminili come Patty Pravo, Rita Pavone e Caterina Caselli, che hanno saputo farsi strada in un ambiente prettamente maschile. Interessante, come queste voci siano riuscite a consolidare la propria fama anche negli anni successivi, iscrivendo il proprio nome nella storia della musica italiana

La narrazione dà ampio spazio allo spirito di ribellione e all’intento provocatorio alla base della corrente musicale, che si palesava già a partire dalla scelta dei titoli, si pensi a “Dio è morto” di Guccini, poi inciso dai Nomadi. La risposta delle istituzioni fu in prima battuta rigida: la Rai, al Festival delle Rose, avvenuto con cadenza annuale tra il 1964 e il 1967, applicò la censura a testi che parlavano dei Vietcong e sequestrò i distorsori. Poi l’arrivo di radio straniere come Radio Montecarlo e Radio d’Istria, che davano spazio alla musica beat, alleggerì la tensione e portò la stessa radio pubblica italiana ad addolcirsi, realizzando programmi come Bandiera Gialla e Per voi giovani.

C’era una volta il Beat italiano tocca molti temi di contorno alla sfera musicale: dal vestiario, all’emancipazione femminile, passando per la liberalizzazione sessuale e la vita notturna dello storico Piper Club di Roma. La narrazione si sviluppa attraverso interviste ad esponenti che hanno vissuto in prima persona la Beat Music. Si possono seguire i racconti di esperti, cantanti, direttori di riviste e studiosi di musica che raccontano le loro esperienze e l’atmosfera di quegli anni in maniera leggera e spontanea, ma con la consapevolezza di aver vissuto una cesura storica fondamentale per la storia del nostro paese.

Sebbene le tematiche trattate siano di impatto e gli intervistati molto preparati, l’inserimento di immagini di repertorio e di brani musicali avrebbe permesso una maggiore contestualizzazione e attribuito una maggiore dinamicità all’esperienza. In ogni caso, C’era una volta il Beat italiano resta un documentario che contribuisce a salvare le memorie di un’epoca lontana ma ancora capace di affascinare, soprattutto chi non l’ha mai vissuta.

Fonte dell’immagine: screen del documentario “C’era una volta il Beat italiano”

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