Gus Van Sant è uno dei registi americani più polarizzanti degli ultimi quarant’anni, capace di muoversi tra cinema indipendente e mainstream e affrontare temi sempre affascinanti e complicati da raccontare. La sua carriera è segnata da film che esplorano i margini della società, i desideri inconfessabili e i drammi che scuotono l’America contemporanea. Tre film di Gus Van Sant, in particolare, rappresentano altrettante tappe fondamentali del suo percorso creativo: Mala Noche (1986), Gerry (2002) ed Elephant (2003).
Il film debutto di Gus Van Sant: Mala Noche
Girato con un budget ridottissimo e in bianco e nero, Mala Noche (1986) segna l’esordio di Gus Van Sant nel lungometraggio. Tratto dal romanzo semi-autobiografico di Walt Curtis, racconta la storia di Walt, commesso di un negozio dell’Oregon che si innamora di Johnny, giovane immigrato messicano entrato illegalmente negli Stati Uniti. Il film non si limita a raccontare una passione tormentata, ma riflette sulla marginalità e sull’America “invisibile”. Gus Van Sant adotta uno stile sporco e nervoso, ponendo già con il suo debutto il tema dell’amore come forza irrazionale al centro del suo cinema, capace di oltrepassare barriere culturali, sociali e linguistiche. Mala Noche venne accolto con favore dalla critica e divenne un piccolo cult del cinema indipendente, aprendo al regista le porte dei circoli festivalieri e ponendolo come voce nuova e coraggiosa.
Il labirinto esistenziale di Gus Van Sant nel film Gerry
Dopo alcuni lavori più legati al mercato hollywoodiano, come Good Will Hunting (1997), nei primi anni Duemila sceglie di tornare a un cinema radicale e sperimentale. Gerry (2002), realizzato insieme a Matt Damon e Casey Affleck, attori che avevano già lavorato con il regista nel precedentemente citato Good Will Hunting, è un film estremamente particolare a causa della sua struttura. La trama è ridotta all’osso: due amici si perdono in un deserto sconfinato e la loro camminata si trasforma in un viaggio di dissoluzione fisica e mentale. I dialoghi sono scarni e ridotti a un mero accessorio non fondamentale per l’opera, mentre i silenzi e i paesaggi desolati del deserto americano diventano il mezzo con il quale Gus Van Sant evoca i sentimenti di dissoluzione fisica e mentale.
Elephant: la tragedia silenziosa
Il film di Gus Van Sant Elephant (2003) è ispirato al massacro della Columbine High School del 1999. Lontano dal sensazionalismo, il regista sceglie un approccio sobrio e quasi documentaristico. Il film segue diversi studenti all’interno di una scuola americana durante una giornata apparentemente normale, ma che si rivelerà tragica. I lunghi piani sequenza, i corridoi infiniti, il tempo sospeso creano un’atmosfera di inquietudine crescente. Il titolo richiama l’idea dell’“elefante nella stanza”: un problema enorme e visibile che tutti fingono di non notare. In questo caso, la violenza armata e l’alienazione giovanile negli Stati Uniti. Elephant non offre risposte, non psicanalizza i killer, ma lascia che siano le immagini a parlare. La scelta stilistica conferisce al film una forza destabilizzante, che lo ha reso un’opera di riferimento sul rapporto tra cinema e violenza. Non a caso vinse la Palma d’Oro e il Premio per la miglior regia al Festival di Cannes 2003.
L’eredità di un autore radicale
Oggi Gus Van Sant viene considerato uno degli autori più radicali del cinema indipendente d’oltreoceano. Dai vicoli sporchi di Portland di Mala Noche, ai deserti senza uscita di Gerry, fino ai corridoi asettici di Elephant, il regista ci ha mostrato tre paesaggi che sono, in fondo, tre stati della vita dell’America dimenticata dalle grandi produzioni hollywoodiane e dell’animo umano stesso.
Fonte immagine di copertina: fotogramma del trailer