L’impressionismo francese incontra il cinema: il primo piano

Impressionismo francese incontra il cinema

L’impressionismo cinematografico francese è il movimento d’avanguardia che, negli anni ’20, ha affermato con forza l’autonomia del cinema come forma d’arte. Nato in un contesto di grande sperimentalismo, questo movimento si propose di superare la semplice riproduzione oggettiva della realtà per concentrarsi sulla resa delle impressioni soggettive, degli stati d’animo e delle emozioni intime dei personaggi. Sebbene avvenga circa 40-50 anni dopo la sua controparte pittorica, il legame con l’arte di artisti come Manet e Monet è profondo: come i pittori abbandonarono la missione di restituire fedelmente il reale per catturare l’attimo e la luce, così i cineasti francesi iniziarono a usare la macchina da presa per esprimere il non visibile.

I registi volevano dimostrare le loro capacità di creare immagini artistiche che non fossero una mera copia del mondo, ma che restituissero un sentimento più profondo. Questo discorso trovava un parallelo nella fotografia del tempo, in particolare nel movimento del “pittorialismo”, dove i fotografi rivendicavano la possibilità di creare atmosfere cariche di emozione, andando oltre la cruda documentazione.

Le caratteristiche del cinema impressionista

Il cinema impressionista francese si distingue per un linguaggio visivo innovativo, finalizzato a tradurre la vita interiore dei personaggi. Le sue tecniche principali includono la sovrimpressione, per mescolare immagini e simboleggiare pensieri o ricordi, il montaggio ritmico e veloce, usato magistralmente da Abel Gance in La Roue (1923) per trasmettere tensione o accelerazione emotiva, e l’uso di filtri, sfocature e inquadrature deformate per alterare la percezione visiva secondo lo stato psicologico del protagonista. L’obiettivo era creare un lirismo visivo capace di rendere l’esperienza dello spettatore più immersiva e psicologica.

Il concetto di fotogenia e l’uomo visibile

Il fondamento teorico del movimento è la fotogenia, un concetto elaborato principalmente dal critico e regista Louis Delluc. La fotogenia è quella qualità specifica che un oggetto, un paesaggio o un volto acquisisce solo attraverso la ripresa cinematografica, che ne rivela un’anima e una bellezza nascoste, altrimenti impercettibili. È la capacità del cinema di trasfigurare il reale e di caricarlo di nuovo significato. Su questa linea si inserisce il pensiero di Béla Balázs, regista e scrittore ungherese, che nel suo libro “L’uomo visibile” sosteneva come il cinema avesse restituito centralità al volto umano.

Nel suo saggio, Balázs afferma che l’invenzione della stampa ha immerso la cultura nella parola, facendoci dimenticare l’importanza del linguaggio non verbale e delle fattezze umane. Il cinema, per la prima volta, rendeva l’uomo di nuovo visibile. Secondo Balázs, infatti:
i primi piani costituiscono la sfera più peculiare del cinema. Nei primi piani si dischiude la terra inesplorata di questa nuova arte.

Protagonisti e opere principali del movimento

Oltre a Jean Epstein, l’impressionismo francese ha visto l’emergere di numerosi talenti che hanno contribuito a definire l’estetica del movimento. Figure come Abel Gance, Germaine Dulac e Marcel L’Herbier, insieme al già citato Louis Delluc, sono considerati i pilastri di questa avanguardia. Ciascuno ha apportato un contributo unico, sperimentando con la narrazione e le tecniche visive per esplorare la psiche umana, come evidenziato dalle informazioni reperibili presso istituzioni come la Cinémathèque Française.

Regista Opera rappresentativa e contributo
Jean Epstein Coeur fidèle (1923): ha perfezionato l’uso della sovrimpressione per visualizzare i sentimenti e ha approfondito la teoria della fotogenia.
Abel Gance La roue (1923): pioniere del montaggio rapido e ritmico per creare un forte impatto emotivo e sensoriale.
Germaine Dulac La souriante madame beudet (1923): ha esplorato la psicologia femminile e i desideri repressi, spesso considerata una delle prime opere femministe del cinema.
Marcel L’Herbier El dorado (1921): noto per la sua estetica lussuosa e per l’uso innovativo di distorsioni ottiche per rappresentare la soggettività.

Il primo piano come rivelazione dell’anima

Il primo piano è l’elemento stilistico che forse più di ogni altro caratterizza il cinema degli anni ’20. Questo strumento espressivo diventa fondamentale per trasmettere il pathos dei personaggi in un’epoca in cui, mancando le parole del sonoro, l’immagine doveva essere più eloquente possibile. Un esempio emblematico, sebbene opera del regista danese Carl Theodor Dreyer ma profondamente affine a questa sensibilità, è “La passione di Giovanna d’Arco” (1928). Interpretata da Renée Falconetti, la pellicola è un trionfo di primi piani in cui l’attrice regala un’interpretazione fatta di espressioni intense, piene di dolore e spiritualità. Il film isola completamente il volto, rendendo lo sfondo neutro, quasi astratto, per concentrare tutta l’attenzione sulla “microfisionomia” dell’eroina.

Jean Epstein è uno dei cineasti più importanti dell’impressionismo francese e un grande teorico. Il suo spirito lo si può notare nel suo film più celebre, Coeur Fidèle (1923), in cui utilizza la già citata sovrimpressione per descrivere un sentimento. Viene creata una fusione visiva tra il volto della protagonista e il mare, un’intuizione potente per legare il desiderio amoroso a un paesaggio marino, forte ma al tempo stesso inafferrabile e mutevole.

L’animismo cinematografico: quando gli oggetti prendono vita

Riprendendo il discorso di Balázs, il cinema non trasforma soltanto i volti, ma ogni cosa in un primo piano. Quando un oggetto viene catturato dalla macchina da presa, acquisisce un surplus di significato. Balázs, per spiegare questa idea, afferma che il cinema ci fa ritornare alla percezione tipica dell’infanzia, quando ogni cosa può assumere una valenza magica e misteriosa. Scrive infatti:
“Ogni bambino conosce i volti delle cose e attraversa col cuore palpitante una stanza semibuia, in cui il tavolo, l’armadio e il divano paiono volerci dire qualcosa. (…) Non c’è nessun arte che abbia una simile vocazione a rappresentare questo volto delle cose quanto il cinema.”

Su questo si ritrova molto anche Jean Epstein. Nel suo saggio “Alcune condizioni della fotogenia“, pubblicato nel 1923, egli definisce il cinema un’arte animista. L’animismo è quella concezione arcaica che attribuisce un’anima agli oggetti inanimati. Sebbene sia un pensiero superato, Epstein lo usa come metafora per descrivere il potere del cinema, come confermato da fonti autorevoli come l’enciclopedia Treccani. Secondo il regista, il cinema presta un’apparenza di vita a tutto ciò che inquadra. Come lui stesso afferma:

“È stata spesso sottolineata l’importanza quasi divina che assumono in primo piano i frammenti di corpi, gli elementi più freddi della natura. Una pistola in un cassetto, una bottiglia rotta per terra, un occhio circoscritto dall’iride, si elevano, grazie al cinema, alla dignità di personaggi del dramma! (…)”

Fonte immagine: Wikipedia

Articolo aggiornato il: 10/10/2025

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A proposito di Bassano Vincenzo

Laureato in Lingue e Culture Comparate presso l'Università L'Orientale di Napoli. Attualmente laureando magistrale in lingua e letteratura giapponese. Grande appassionato di cinema, videogiochi, anime e fumetti.

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