Il film Rashomon di Akira Kurosawa, uscito nel 1950, è un capolavoro che ha introdotto il cinema giapponese al pubblico occidentale. Pochi sanno, però, che la sua genialità narrativa nasce dalla fusione di due distinti racconti dello scrittore Ryunosuke Akutagawa. Il film prende infatti l’ambientazione cupa e il titolo dal racconto “Rashōmon”, ma basa la sua celebre trama, con le sue verità multiple e contraddittorie, su un altro racconto intitolato “Nel bosco” (*Yabu no Naka*). Questa combinazione ha dato vita a un’opera immortale, interpretata magistralmente da icone come Toshiro Mifune e Machiko Kyō.
Indice dei contenuti
Le due fonti letterarie del film Rashomon
| Racconto di Akutagawa | Contributo al film di Kurosawa |
|---|---|
| Rashōmon (1915) | Fornisce l’ambientazione principale: la porta di Rashō a Kyoto, diroccata e battuta dalla pioggia, che funge da cornice narrativa e da simbolo di decadenza morale. |
| Nel bosco (1922) | Fornisce l’intera struttura della trama: un delitto (l’omicidio di un samurai e la violenza su sua moglie) raccontato attraverso le testimonianze contrastanti dei protagonisti. |
Chi era Akutagawa Ryunosuke, il padre del racconto giapponese
Ryunosuke Akutagawa (1892-1927) è uno dei più grandi scrittori giapponesi del Periodo Taishō. Affidato allo zio materno a causa della malattia mentale della madre, crebbe in un ambiente culturalmente stimolante. Discendente da una famiglia di samurai, sviluppò una profonda passione per la letteratura, laureandosi in letteratura inglese all’Università Imperiale di Tokyo. Il suo stile, influenzato da autori europei come Dostoevskij e Maupassant, si distingue per la profondità psicologica e il pessimismo. Il suo racconto Rashōmon, il cui titolo può essere tradotto come “La Porta dei Demoni”, ricevette gli elogi del celebre romanziere Sōseki Natsume. Purtroppo, la sua vita fu segnata da un crescente tormento interiore. Soffriva di allucinazioni e temeva di ereditare la malattia della madre, un’angoscia che lo portò al suicidio a soli 35 anni. In suo onore, nel 1935 fu istituito il Premio Akutagawa, oggi il più prestigioso riconoscimento letterario del Giappone.
L’adattamento di Kurosawa e il successo internazionale
Definito da André Bazin «un film che spiazza per qualità, originalità e importanza», *Rashomon* consacrò Akira Kurosawa a livello mondiale. Il film fu presentato quasi per caso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia del 1951, dove vinse a sorpresa il Leone d’Oro. L’anno successivo, ottenne l’Oscar onorario come Miglior Film Straniero, aprendo le porte del cinema giapponese ai mercati occidentali. La trama è un thriller psicologico incentrato su un crimine avvenuto in un bosco: lo stupro di una donna e l’omicidio del marito samurai. La verità, però, rimane un enigma, frammentata nelle narrazioni inconciliabili dei quattro testimoni: il bandito, la donna, il fantasma del samurai e un taglialegna.
L’effetto Rashomon: quando la verità è soggettiva
Il film ha avuto un impatto culturale così profondo da generare un termine specifico: l’effetto Rashomon. Questo concetto descrive una situazione in cui un evento viene interpretato in modi diversi e contraddittori da persone diverse, rendendo impossibile stabilire una verità oggettiva. Ogni testimone nel film racconta la storia in modo da apparire nella luce migliore, o più coerente con la propria autopercezione, dimostrando come la memoria, il desiderio e l’ego modellino la realtà. Kurosawa non sfida lo spettatore a risolvere l’enigma, ma a sospendere il giudizio e a riflettere sulla natura inafferrabile della verità.
Analisi del film: simbolismo e allegoria
Kurosawa utilizza stili visivi distinti per i tre piani temporali del racconto. Il presente sotto il portale di Rashō, simbolo di un mondo in rovina, è girato con un grandangolo per enfatizzare lo spazio simbolico. Il passato del processo è caratterizzato da inquadrature frontali e statiche, che trasmettono un senso di claustrofobia formale. Il passato remoto del bosco, invece, è un tripudio stilistico, un luogo presociale dove emergono gli istinti umani più bassi. L’intera opera è un’allegoria della società giapponese del dopoguerra, un invito a confrontarsi con il caos e a cercare un barlume di speranza, rappresentato dal gesto finale del taglialegna che accoglie un neonato abbandonato.
Articolo aggiornato il: 13/10/2025

