La psicologia pop conquista i social: tra meme, video e auto-diagnosi, termini come “gaslighting”, “ADHD” e “depressione” diventano quotidianità online. Ma dietro l’ironia e la leggerezza, cresce il rischio di banalizzare disturbi reali e confondere il pubblico.
Alzi la mano chi non ha letto almeno una volta termini come gaslighting, ADHD, depressione o narcisismo all’interno dei post di Instagram. Ormai sono diventati parte del linguaggio quotidiano dei social.
Una nuova forma di divulgazione che riguarda la salute mentale, una psicologia pop, che sta ridefinendo il modo in cui si parla di prevenzione e trattamento del disagio psichico. Ma dietro ai video ironici e alle diagnosi fai-da-te, si nasconde un rischio: quello di banalizzare disturbi complessi e ridurre la psicologia a un trend.
Cos’è la psicologia pop

Il termine “psicologia pop” si riferisce alla diffusione di concetti psicologici semplificati o distorti sui media e social network.
Nasce dal tentativo di rendere la psicologia più accessibile, ma finisce spesso per confondere divulgazione e intrattenimento. Su piattaforme come TikTok o Instagram, è facile imbattersi in contenuti che spiegano disturbi mentali in modo superficiale, trasformando la sofferenza psicologica in meme o incoraggiamento all’auto-diagnosi.
Questa tendenza, sebbene nata involontariamente e comunque con buone intenzioni, alimenta la convinzione che basti guardare un video di 30 secondi per capire se si ha un disturbo.
Diagnosi a portata di like

L’uso della psicologia pop si manifesta ogni giorno nei comportamenti online:
chi si distrae continuamente mentre studia si convince di “avere l’ADHD”; chi ama la pulizia si definisce “ossessivo-compulsivo”; chi evita di uscire con gli amici si definisce “sociofobico”.
Questi esempi, apparentemente innocui, creano una confusione profonda.
Da un lato normalizzano la sofferenza, dall’altro rischiano di invalidare chi davvero convive con disturbi clinici, spesso gravi e debilitanti.
Quando tutto diventa trauma, “trigger” o “gaslighting”, il linguaggio perde valore e con esso anche la possibilità di riconoscere e trattare i disagi reali.
Se tutto è patologia, allora nulla è patologia.
L’effetto dei social: tra empatia e superficialità
I social network hanno un enorme potere nel rendere la psicologia più visibile.
La psicologia pop, in questo senso, ha anche un lato positivo: permette a molte persone di riconoscere parti di sé, iniziare una seria riflessione e, perché no, avvicinarsi alla terapia.
Il problema nasce quando il messaggio viene semplificato fino alla distorsione.
I creator che parlano di psicologia spesso non hanno una formazione adeguata e il linguaggio “emozionale” dei social tende a privilegiare l’impatto rispetto alla precisione. Nella migliore delle ipotesi, manca loro un background accademico. Nella peggiore, si improvvisano “guru” della salute mentale, utilizzando pericolosamente strumenti propri della medicina e della psicoterapia, finendo col provocare danni all’ignaro cliente.
Così, una riflessione sulla salute mentale si trasforma facilmente in contenuto da like.
Psicologia pop e rischio di auto-diagnosi
Uno degli effetti collaterali più diffusi del ricorso alla psicologia pop è la tendenza all’auto-diagnosi.
La velocità e la familiarità con cui si parla di disturbi mentali online fanno credere a molti utenti di potersi identificare in quei sintomi. Ma riconoscersi in un comportamento non significa avere una patologia.
Solo una valutazione professionale può stabilire se un sintomo rientra in un quadro clinico o è parte del normale spettro delle emozioni umane.
Confondere i due piani rischia di patologizzare la vita quotidiana.
L’importanza del linguaggio nella salute mentale
La psicologia si fonda sul linguaggio: nomina, definisce e dà significato.
Usare termini clinici fuori contesto, come accade nella psicologia pop, svuota le parole del loro peso e può banalizzare esperienze di grande sofferenza.
Dire “sono depresso” quando si è solo tristi o “mi sento bipolare” perché si cambia umore velocemente, contribuisce a confondere le percezioni collettive.
La consapevolezza passa anche da qui: usare le parole giuste è un atto di rispetto verso chi convive davvero con quei disturbi.
Dalla psicologia pop alla divulgazione consapevole
Non tutto, però, è da condannare. Il ricorso alla psicologia pop ha dimostrato che il pubblico è affamato di contenuti psicologici, di comprensione e di linguaggi che parlino di emozioni. Per poter capire se stessi e gli altri.
Il passo successivo è trasformare questa curiosità in conoscenza reale.
I professionisti del settore hanno oggi l’opportunità di fare divulgazione consapevole: spiegare, correggere, tradurre la psicologia in un linguaggio accessibile ma rigoroso.
Solo così la psicologia pop può evolversi in uno strumento educativo invece che in un fenomeno superficiale.
La psicologia pop non è il male assoluto, ma un sintomo dei tempi: un bisogno collettivo di certezze e rassicurazioni.
Il problema non è parlarne, ma come se ne parla.
Portare la psicologia fuori dagli studi e dentro le conversazioni quotidiane è un passo avanti importante, a patto che resti fedele alla realtà dei fatti.
Chi lo avrebbe mai detto che la vera rivoluzione sarebbe stata tornare a dare peso alle parole?
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