L’atelier segreto di Parigi, Juliet Blackwell | Recensione

Atelier segreto Parigi

È uscito presso le edizioni Newton Compton il nuovo romanzo di Juliet Blackwell L’atelier segreto di Parigi (tradotto da Carlotta Mele, 416 pagine): una “lettura che non si dimentica”, così come dichiarato dal Library Journal, la rivista di coloro che delle biblioteche sono i veri motori, cioè i lettori. 

Inverno 1944, Parigi, X arrondissement, Rue du Faubourg Saint-Martin: è in questa cornice spazio-temporale che inizia “L’atelier segreto di Parigi”, il romanzo di Juliet Blackwell che si legge tutto d’un fiato se si vogliono approfondire i tempi bui dell’occupazione nazista con una storia che, nonostante l’oscurità dei danni e delle vessazioni di cui racconta, alla fine ridona un barlume di speranza sotto forma di luce e liberazione. 

“Quando ogni speranza sembra perduta, l’unica salvezza è l’amore”: queste parole fanno da fil-rouge nella vita frammentata della protagonista, Capucine Benôit, parigina indomita e coraggiosa che lavora insieme al padre, un artigiano che produce ventagli di pregio, beni di lusso destinati, in tempi di guerra, ad esser essere considerati superflui ma prima d’allora invece richiestissimi dalle case di moda più à-la-page di Parigi. 

Quando i nazisti occupano Parigi, Capucine e suo padre, Bruno, vengono arrestati nella loro bottega a causa di alcune loro posizioni politiche, non avendo padre e figlia mai fatto mistero delle considerazioni che li animano e che fanno loro percepire come amplificata e insostenibile tutta l’assurdità di quei soprusi. 

Padre e figlia finiscono così, a seguito di una soffiata codarda, nel mirino del sistema repressivo nazista. Dalle piume colorate alle perline cangianti e stoffe magnifiche che un tempo costituivano la loro quotidianità lavorativa, si ritrovano ora a misurarsi con un destino avverso. Capucine sarà costretta a fare da catena di montaggio in un campo di lavoro allestito nel cuore della capitale francese, dove centinaia di prigionieri smistano, riparano e catalogano le enormi quantità di beni artistici e di valore saccheggiati dagli occupanti. Ma non per questo si perderà d’animo e si ridurrà ad “alienarsi”, così com’è estraniante sentirsi parte puramente meccanica di una catena di montaggio.

Capucine “finisce” al Levitan, un ex grande magazzino costruito dagli ebrei. Insieme ad altri prigionieri, attende ansiosa e speranzosa la fine del conflitto. Al Levitan arrivano ogni giorno mobili ed oggetti confiscati dalle abitazioni depredate agli ebrei: non solo pezzi di arredamento ma persino documenti, foto e ricordi di vite interrotte dalla folle malvagità umana.

Nonostante il duro lavoro e la minaccia costante di ritorsioni da parte degli aguzzini nazisti, Capucine si aggrappa all’unica speranza che le è rimasta: sapere che Mathilde, sua figlia, si trova al sicuro nella casa dei nonni paterni, benestanti e ancora “risparmiati” dalla furia cieca e onnivora dei nemici. 

L’ATELIER SEGRETO DI PARIGI di Juliet Blackwell: la nostra recensione 

Il romanzo di Juliet Blackwell catapulta sin dalle prime righe nella Parigi sconvolta dagli eventi eppur romantica di quei tempi. Una Parigi provata dall’occupazione nazista ma non del tutto stravolta: la storia stessa – vera! – dei grandi magazzini più alla moda della città trasformati in un campo di prigionia per ebrei ne è la riprova più convincente. 

La scrittura di Juliet Blackwell fa da bussola tra gli arrondissements della capitale portando ora ad un dialogo tra padre e figlia ora ad un silenzio tra figlia e madre ricco di non detti, esemplificato dal linguaggio in codice dei ventagli attraverso i quali le due donne restano in contatto. Al di là di un incontro inatteso, vero acme del romanzo, la forza del libro sta proprio nella protagonista eroina della vicenda, che ogni giorno aiuta i suoi compagni del Levitan e sé stessa a sopravvivere. La aiutano e la tengono in vita sia dei ricordi indelebili del passato – in primis l’amore per Charles, l’uomo che ama e che vive in America – sia il legame sempre presente con Mathilde, altra voce co-protagonista del romanzo, il cui punto di vista si alterna a quello di Capucine.

Mathilde vive nella cosiddetta “bambagia”: è stata cresciuta sotto una campana di vetro dai nonni ricchi, genitori del padre defunto. Ma quella campana, piano piano, mostra tutta la sua trasparente fragilità e Mathilde, finalmente, apre gli occhi alla dura realtà del mondo. Finalmente si ribellerà. Disprezzerà gli invasori, non condividerà le scelte dei nonni. Un connubio di politica ed esistenza che porterà madre e figlia ad avvicinarsi sempre più, proprio in nome dell’amore che entrambe vogliono scegliere, e non subire.

Cosa succederà alla “ragazza dei ventagli”? L’atelier segreto di Parigi narra una storia vera con raffinatezza e disinvoltura, specchio dello stile di Juliet Blackwell che riesce a raccontare, in un rimando continuo tra le due donne che si fanno strada tra amore e guerra, un’avventura coraggiosa all’insegna delle scelte scomode, vero contrassegno della libertà. 

Fonte immagine: Ufficio Stampa Newton Compton

image_pdfimage_print

A proposito di Giulia Longo

Napolide di Napoli, Laurea in Filosofia "Federico II", PhD al "Søren Kierkegaard Research Centre" di Copenaghen. Traduttrice ed interprete danese/italiano. Amo scrivere e pensare (soprattutto in riva al mare); le mie passioni sono il cinema, l'arte e la filosofia. Abito tra Napoli e Copenaghen. Spazio dalla mafia alla poesia.

Vedi tutti gli articoli di Giulia Longo

Commenta