Moore e le piccole Veneri di F. R. Borruso: la fascinazione per l’arte preistorica

Henry Moore e le piccole Veneri: la fascinazione per l’arte preistorica

Henry Moore e le piccole Veneri di Francesca R. Borruso: viaggio nell’arte preistorica. Leggi qui la nostra recensione!

«Una visione innata, qualcosa di mentale piuttosto che fisico […]. La monumentalità è parte integrante della visione di alcuni artisti, non può essere insegnata» (L. Papi, Incontro con Henry Moore, 22 settembre 1968, La Nazione, Firenze).

Tale potenza di visione e la monumentalità che ne scaturiva erano considerate da Henry Moore, uno dei maggiori scultori del Novecento, le doti artistiche fondamentali, che egli riconosceva come il linguaggio senza tempo di uomini e donne della preistoria: ebbene, è proprio di questo viaggio nella storia dell’arte che si occupa Francesca R. Borruso nel suo volume Henry Moore e le piccole Veneri: arte e identità umana, edito nel dicembre 2019 da Edizioni Espera.

Le sue ricerche riguardanti l’interesse di Moore per l’arte del Paleolitico superiore e del Neolitico si snodano a partire dalla formazione dell’artista: nato nel 1898 a Castleford, cittadina mineraria dello Yorkshire, da una famiglia di minatori, nutriva una vera e propria fascinazione per l’esplorazione delle profonde cavità naturali che si trovavano nei pressi della sua cittadina natale: fu proprio qui che egli radicò il suo rapporto con lo spazio cavo, con la sua plasticità in quanto negativo di un solido«Una caverna è una forma. Non è il grumo di montagna che c’è sopra» – e soprattutto con la percezione palpabile della presenza dei suoi antichi abitatori, che Moore riconosceva simili a se stesso in termini di identità umana. All’interno della National Gallery e del British Museum avvenne il suo incontro con i reperti artistici della preistoria: li descriverà dopo venti anni, nel suo famoso articolo Primitive Art, pubblicato per la rivista The Listener, «dove descrisse per la prima volta quelle piccole figure femminili teneramente scolpite, di un realismo umano, non accademico e di una grande pienezza di forme», come scrive la nostra autrice.

Anche l’Italia fu per Moore una tappa fondamentale della maturazione artistica, perché nel corso di un viaggio nella penisola egli rimase affascinato dalle opere di Masaccio, Giotto, Michelangelo e Donatello. Fu in quegli anni che, dopo una fase di profonda crisi, si manifestò il conflitto tra la doppia polarità della sua personalità – forza e tenerezza – che lo scultore condenserà nella sua arte.

La scoperta dell’arte preistorica e la reazione del mondo accademico

Nel 1926, al suo ritorno dall’Italia, Moore cominciò a disegnare le piccole Veneri: in un flusso di continue folgorazioni e rielaborazioni, mediante un incessante trasformare e riprendere che si dipanava fin dai ricordi dell’adolescenza, potenziato dal viaggio di esplorazione che condusse nel 1934 presso le grandiose grotte con le pitture rupestri di Altamira e della Dordogna, Moore attinse alla memoria di tali statuette con accenni costanti all’arte preistorica nelle sue opere  come il tema a lui caro della madre col bambino  ben visibili nei bozzetti preparatori e nei disegni. L’autrice si sofferma poi, con grande accuratezza, sulla storia del rinvenimento delle “Veneri paleolitiche”, piccole immagini femminili in avorio di mammut o di pietre tenere, scoperte in Europa e in Siberia dalla seconda metà dell’Ottocento.

Molto diverse dall’immagine idealizzata del mondo classico, esse esibivano una palese nudità e un’opulenza di forme, e per questo furono giudicate repellenti e oscene dal mondo accademico contemporaneo e bollate, per contrasto con l’osannata Venere medicea, con l’appellativo denigratorio di “Veneri”. Tale sorta di contraddizione in termini era frutto di razzismo e misoginia culturali, derivanti dagli studi di anatomia comparata dell’epoca, condotti da uno dei più stretti collaboratori di Napoleone, George Cuvier, che aveva contribuito alla definizione e collocazione scientifica delle “razze”. Questi sosteneva che gli uomini preistorici avessero un aspetto e delle qualità morali sub-umane e che fossero appartenuti a una razza con tratti negroidi, simili agli Ottentotti: fu per questo che Cuvier si dedicò con sollecitudine allo studio dell’allora nota “Venere Ottentotta”, una giovane donna Khoikhoi, esibita in Europa per le sue peculiari forme anatomiche, dissezionata alla sua morte ed esposta in vari sedi museali parigine. L’autrice chiarisce come tale «assurdità antiscientifica» riflettesse le interpretazioni distorte radicatesi, riguardanti le piccole Veneri paleolitiche: si riteneva erroneamente, infatti, che esse fossero la rappresentazione plastica delle donne della preistoria.

Henry Moore: suggestioni, fascinazioni e rielaborazioni

Moore, invece, «seppe riconoscerne la bellezza e le descrisse in termini poco accademici e molto terreni». Avverso al dogmatismo aprioristico e all’impostazione accademica e cristianocentrica del tempo, che osteggiava le culture artistiche lontane dai canoni estetici del classicismo, egli proponeva, con originale sintonia visionaria, un approccio empatico, fondato sulla comprensione della cultura da cui i reperti provenivano. Le statuette erano una parte della vita reale ed erano frutto di un percorso artistico snodatasi senza cesure attraverso i secoli, iniziato dai nostri antichi progenitori ed in reale continuità con l’arte moderna: «Moore si sentiva idealmente parte della grande comunità degli artisti di ogni tempo, sin da quelli della remota preistoria, e si augurava che le antichissime opere d’arte fossero capite e studiate da tutti con maggiore empatia».

Insomma la nostra autrice, con grande accuratezza, impreziosendo il volume di costanti citazioni dalle opere e dalle interviste di Moore, ci dona un’opera amabile, che illumina sull’intensa vitalità dell’arte primitiva e sul peculiare percorso di ricerca sull’identità umana condotto da un artista geniale e ostinatamente controcorrente, che ha rivoluzionato la scultura moderna dell’Inghilterra postbellica con le sue iconiche ed immaginifiche figure. 

Fonte immagine: Ufficio Stampa.

A proposito di Adele Migliozzi

Laureata in Filologia, letterature e civiltà del mondo antico, coltivo una grande passione per la scrittura e la comunicazione. Vivo in provincia di Caserta e sono annodata al mio paesello da un profondo legame, dedicandomi con un gruppo di amici alla ricerca, analisi e tutela degli antichi testi dialettali della tradizione locale.

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