A Brave Introduction to Electronica: Jon Hopkins, Singularity (Domino Records, London 2018)

Ciao.

Sono Brave.

Prima di continuare a leggere ti chiedo cortesemente di indossare le cuffie o di accendere un paio di monitor dal cono di almeno 7”.

Molto bene.

Ti confesso che ho impiegato del tempo per decidermi a parlare di questo disco.

Buon ascolto.

https://open.spotify.com/album/1nvzBC1M3dlCMIxfUCBhlO?si=dffvmB_oQNeGBw_pg3TCCQ

https://www.youtube.com/watch?v=6MiCLh_j2aY&list=PLZqsyBiYZFQ2VHs4PQNF1YOJUnBgj8LQc&ab_channel=JonHopkins-Topic

Regola n. 1

Jon Hopkins nasce nel 1979. Singularity esce nel 2018, quando Hopkins ha quasi 39 anni. Ma si può dire che l’album sia stato concepito 15 anni prima, quando era un normale ventiquattrenne inglese. Per 15 anni Jon Hopkins ha maturato l’intenzione di incidere questo disco, fino a quando non si è sentito padrone delle competenze necessarie per passare dalla testa al suono. Questo ci dice molto sula natura del processo creativo: al bando l’idea romantica di ispirazione del momento, al bando gli odiati daffodils. Da che mondo è mondo, al netto di relativamente piccole parentesi – come appunto quella romantica –, l’arte, sia essa musicale, poetica, pittorica ecc., si nutre di tempo. Tempo per pensare, tempo per studiare, tempo per capire. E, solo alla fine, tempo per creare.

Regola n. 2

In elettronica troviamo spesso queste composizioni unitarie, in cui i confini tra brani si mescolano al punto che devono passare un bel po’ di secondi per avere contezza che si è passati al pezzo successivo, che melodie armonie e ritmi sono cambiati. E in elettronica troviamo tanti concept album, paesaggi sonori che non vengono concepiti per durare 3 minuti al fine rientrare nei canoni del profitto radiofonico e riempire lo spazio tra una pubblicità e l’altra. L’elettronica ha al suo interno frange rivoluzionarie che coniugano l’ascoltabilità al concetto, la pista da ballo all’ascolto in camera al buio. Quello che stai ascoltando è forse uno dei più riusciti esperimenti in tal senso. Prova a ballare Emerald Rush, a correre su Singularity o a stenderti sul divano con le casse che pompano Luminous Beings. E poi rifai le stesse cose scambiando i brani. Avrai dimenticato la nozione di confine.

Regola n. 3

Una delle mie figure retoriche preferite è la sinestesia, l’accostamento di parole che evocano sfere sensoriali diverse. La coppia di sensi più associata è ovviamente composta dalla vista e dall’udito. Compi una sinestesia ogni volta che provi a descrivere un suono usando un’immagine. Io non riesco a fare a meno di associare delle immagini quando sento questo disco. E sono immagini ben precise, perché l’artista ha disegnato il suono (altra sinestesia) costruendo un immaginario concepito nel dettaglio: i suoni sono così taglienti che fendono l’aria, la distorsione pare uscita dal nocciolo dei reattori di Chernobyl, il ritmo pare inciampare su sé stesso in un eterno inseguimento (di cosa?). Hopkins ha plasmato il suono creando uno stile inconfondibile che riconoscerai ad ogni concerto hipster a cui (se Dio vuole) andremo quest’estate.

Regola n. 4

Psichedelia. Alzi la mano chi ancora conosce il senso di questa parola. Il ventunesimo secolo lungi dall’essere avanguardia è, in alcuni aspetti, ben più repressivo e censorio degli scorsi decenni. L’approccio alla trasgressione si è rovesciato: mentre era trasgressivo che i Beatles si fumassero le canne in un bagno sperduto di Buckingham Palace per smorzare la tensione dell’incontro con Her Majesty, l’ostentazione odierna del consumo continuo di droghe sempre più farmaceutiche e distruttive ha ben poco di trasgressivo, sembra anzi la norma tra gli adolescenti americani e tra qualche anno anche tra quelli nostrani. Anche in questo Hopkins veicola un’esperienza personale in qualche modo rivoluzionaria: Singularity è un disco scritto per/con la meditazione trascendentale, soprattutto quella indotta dai funghi naturali e condotta dalla sapiente guida di esperti olandesi a cui Hopkins si è avvicinato alla soglia dei quaranta anni. Dice zio Paolo che ci vuole cultura in tutte le cose, anche nel bere, e io aggiungo anche nel drogarsi. Il nostro artista dimostra che dietro alla parola droga ci sono tante realtà differenti, che possono superare la frontiera di Hendrix morto affogato dal proprio rigetto in overdose da eroina o delle vicende giudiziarie di cocainomani egotici stupratori e a-patici tanto care ai telegiornali; il suo disco racconta che ci sono realtà che in alcuni casi possono regalare le più belle esperienze di sempre: il piacere può disperdersi nel corpo e il corpo interno diventare un luogo per il piacere totale. No, non lo dico io né Jon Hopkins, ma Michel Foucault nel 1975, dopo aver fruito di LSD da uno sciamano nella Death Valley. E no, io non mi drogo, perché sono un cacasotto e ho paura di vedere i granchi per anni come successe a Sartre dopo essersi fatto iniettare mescalina (e sotto controllo medico).

Regola n. 5

Si parte forte. Si cresce. Estasi. Si torna giù. Vi voglio bene.

Se dovessi descrivere la parabola narrativa del disco è così che la racconterei. Eppure ogni volta che ascolto Singularity mi si prospettano scene differenti: a volte le fabbriche di un posto che non ho mai visto, altre volte la luce del XXXIII canto del Paradiso, altre ancora le macchine che percorrono piano la tangenziale della nostra Napoli. Andando oltre l’intentio del nostro compositore, l’ascolto della musica elettronica di Jon Hopkins dischiude un ventaglio di possibilità, mai infinite – e qui la grandezza artistica – ma tuttavia sempre nuove. Se hai voglia di viaggiare con la mente stasera, è da qui che devi partire.

Insomma. Concept album, psichedelia, confini, meditazione, sinestesie, processo creativo. Jon Hopkins non è cresciuto con la console da DJ, né con i trip di funghetti ad Amsterdam. Ha studiato pianoforte per tutta una vita, e prima di avvicinarsi alla techno ha composto per anni musica ambient. Mi piace Jon Hopkins, così come mi piace il mondo variegato dell’elettronica, perché ci insegnano entrambi che dietro le apparenze, dietro al mainstream – come nell’elettronica può essere la EDM e i suoi Tomorrowland – ci sono esperienze meditate, studiate, diverse, non nate per far soldi ma che i soldi li fanno lo stesso perché intercettano i bisogni espressivi di tante persone. Mi piace l’idea di far parte di questo grande e bellissimo insieme di persone. E mi piace il fatto che dopo aver letto il mio splendido e magnetico articolo ne voglia irrefrenabilmente far parte anche tu.

Benvenut* a bordo.

Brave

Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *