Il genere shoegaze è un sottogenere dell’alternative rock nato nel Regno Unito alla fine degli anni ’80, contraddistinto da una sonorità eterea e stratificata, ottenuta tramite un uso massiccio di effetti per chitarra. Il termine “shoegaze”, coniato dalla stampa britannica, descrive letteralmente l’attitudine dei musicisti sul palco: per gestire le complesse catene di pedali, tendevano a tenere lo sguardo fisso sulle proprie scarpe (shoe-gazing). Il genere è esploso all’inizio degli anni ‘90, grazie a band seminali come My Bloody Valentine, Slowdive, Ride e Lush.
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Le origini dello shoegaze: dalla scena C86 al “dream pop”
Negli anni ’80 nel Regno Unito si diffuse la scena musicale nota come C86, dal titolo di una compilation della rivista NME. Questa scena, che includeva band della scena indie britannica come attestato da fonti come la Treccani, gettò le basi per un sound che voleva superare l’urgenza del punk attraverso la sperimentazione sonora. Artisti come i Cocteau Twins, con le loro atmosfere oniriche e le chitarre cariche di riverbero e delay, sono universalmente riconosciuti come i precursori del “dream pop” e, di conseguenza, dello shoegaze. La scena prosperò grazie a etichette iconiche come la Creation Records e la 4AD.
| Album fondamentale | Band, anno e caratteristiche sonore |
|---|---|
| Isn’t Anything | My Bloody Valentine (1988) Considerato il primo vero album shoegaze. Suono abrasivo, chitarre distorte e voci eteree sepolte nel mix. |
| Loveless | My Bloody Valentine (1991) Il capolavoro definitivo del genere. Un muro di suono denso e avvolgente, con melodie nascoste e un’atmosfera psichedelica. |
| Souvlaki | Slowdive (1993) Un sound più malinconico e atmosferico. Riff più delicati, voci più presenti e un approccio più vicino al dream pop. |
| Split | Lush (1994) Caratterizzato da voci femminili potenti e melodie più definite, rappresenta una commistione tra shoegaze e britpop. |
Gli album fondamentali per ripercorrere la storia del genere
Il primo album ad essere canonicamente considerato shoegaze è Isn’t Anything dei My Bloody Valentine (1988). È un disco rivoluzionario, con le sue chitarre distorte, le voci sussurrate e sommerse dagli strumenti e un’atmosfera fortemente psichedelica. Questo approccio fu portato alla sua estrema conseguenza nel 1991 con Loveless, un album che, come riconosciuto da critici autorevoli come Pitchfork, è universalmente acclamato come il capolavoro del genere.
Il 1993 è invece l’anno di Souvlaki degli Slowdive, una band che ancora oggi riscuote un enorme successo. L’album si distacca dal suono abrasivo dei My Bloody Valentine per abbracciare riff più delicati, atmosfere sognanti e voci meno mascherate, definendo il lato più dolce e romantico del genere. L’anno successivo, nel 1994, i Lush pubblicarono Split, un disco in cui le potenti voci femminili di Miki Berenyi ed Emma Anderson creano un sound unico, che però all’epoca fu criticato da alcuni puristi per le sue aperture melodiche vicine al nascente Britpop.
L’eredità e il ritorno dello shoegaze
Lo shoegaze non prosperò a lungo nella sua forma originale; già a metà degli anni ’90, l’avvento del Britpop e del Grunge ne causò il declino. Tuttavia, la sua influenza è stata enorme, plasmando il sound di band come i Radiohead e ispirando generi successivi come il post-rock e il blackgaze. Recentemente, il genere shoegaze ha vissuto una vera e propria rinascita, con le reunion di band storiche come Slowdive e Ride e l’emergere di nuovi artisti che ne reinterpretano il suono. Tra le band contemporanee che vale la pena ascoltare ci sono DIIV, Nothing e i giapponesi Oeil. L’atmosfera sognante e la peculiarità sonora dello shoegaze continuano a affascinare musicisti e ascoltatori.
Per un primo ascolto, si consigliano in particolare i brani: “Only Shallow” dei My Bloody Valentine, “Alison” degli Slowdive, “Vapour Trail” dei Ride e “Hypocrite” dei Lush.
Articolo aggiornato il: 23/09/2025

