Sufjan Stevens: le 5 canzoni più belle

Sufjan Stevens

Sufjan Stevens è difficile da definire. Cantautore spirituale, Stevens ha sempre trovato modi per trasmettere la sua fede in album indie-folk per la maggior parte degli ultimi 20 anni. Ha realizzato uno dei migliori album degli anni 2010 con il toccante Carrie & Lowell, e uno dei migliori album del decennio con Illinois, che ha davvero messo Sufjan Stevens sulla mappa (sia in senso figurato che letterale, dopo aver iniziato la sua parodia di una campagna marketing che aveva come scopo l’incisione di un album per tutti i 50 stati). Stevens ha realizzato una colonna sonora per il film Call me by Your Name di Luca Guadagnino, un album in collaborazione con altri quattro artisti sui misteri dei pianeti e dell’universo, un EP in onore dell’apocalisse (All Delighted People), una raccolta di riflessioni cristiane (Seven Swans) e due enormi album di Natale, tra le sue tante altre uscite. Sufjan Stevens è sicuramente un artista che non smette mai di sorprendere: la sua musica affronta questioni spinose come l’abbandono, la morte, la religione, la spiritualità e il Natale con la famiglia.

Ecco una classifica delle sue canzoni più belle e poetiche.

5. Flint (For the Unemployment and Underpaid) (Michigan, 2003)

Nel 2009, Sufjan Stevens ha dichiarato: “Non ho remore ad ammettere che si trattava di un espediente promozionale” riguardo al suo “Fifty States Project”, che idealmente avrebbe visto l’artista pubblicare un album su ciascuno dei 50 Stati Uniti. È improbabile che avremo altri album statali dal cantautore, ma Michigan e Illinois sono opere ispirate e meravigliosamente realizzate, e in gran parte considerate i suoi due migliori album. Attribuire la loro origine al marketing non racchiude tutta la verità. Michigan si apre con “Flint (For the Unemployment and Underpaid)“, la cui semplice apertura di accordi di pianoforte inaugura l’atmosfera malinconica che riempie l’intero album.

4. Futile Devices (The Age of Adz, 2010)

L’album The Age of Adz del 2010 è un netto allontanamento dalle sue radici folk e verso regni elettronici più sperimentali. Da qui, Sufjan Stevens ha continuato su questa traiettoria con la sua band Sisyphus negli anni successivi. La maggior parte delle canzoni di The Age of Adz sono aggressive e abrasive, ponendo enfasi verso suoni più viscerali come quelli che Stevens ha esplorato nei suoi primi album. Si è fatto molto clamore, giustamente, sull’epopea di 25 minuti che chiude l’album, “Impossible Soul“, ma la tranquilla e senza pretese “Futile Devices” che apre l’album rimane impressa, forse per il suo crudo contrasto con il resto delle canzoni. Le chitarre pizzicate con le dita e il pianoforte creano una trama dolce.

3. Vito’s Ordination Song (Michigan, 2003)

Vito’s Ordination Song” chiude il Michigan con un canto ripetuto, “Rest in my arms / Sleep in my bed / There’s a design / To what I did and said”. È il perfetto congedo dall’album, che cattura lo spiritualismo popolare delle canzoni e costruisce quello che è probabilmente è più un inno che una semplice canzone. “Vito’s Ordination Song” è un’altra delle canzoni più semplici nel suo catalogo, ma la sua semplicità è gran parte del suo fascino. Gli stessi ottoni stonati che accompagnano “Flint (For the Unemployment and Underpaid)” ritornano qui, rendendola una delle tracce chiavi di Michigan.

2. Casimir Pulaski Day (Illinois, 2005)

Gran parte della bellezza dei due album legati ad uno dei 50 stati deriva dall’uso da parte di Stevens di riferimenti storici, culturali e geografici come fondali per storie personali ed emotive di interazione umana. In “Casimir Pulaski Day“, Sufjan Stevens racconta la storia di un amante che combatte contro il cancro, che muore durante il Casimir Pulaski Day, una festa celebrata in Illinois il primo lunedì di marzo in omaggio all’eroe della Guerra d’indipendenza. Stevens lotta con i suoi sentimenti di amore, vergogna e senso di colpa religioso per la loro relazione travagliata. Accompagnato dall’arrangiamento del banjo, “Casimir Pulaski Day” è una delle canzoni più riconoscibili ed emotivamente potenti di Stevens.

1. John Wayne Gacy, Jr. (Illinois, 2005)

È un compito difficile creare un’opera d’arte che faccia provare compassione per un uomo che ha molestato e ucciso almeno 33 adolescenti, ma questo è esattamente il tipo di miracolo che Sufjan Stevens riesce a realizzare qui. Lo scopo della canzone non è convincere a perdonare Gacy; invece, tenta di umanizzare il mostruoso degli uomini. Nella strofa finale, Stevens capovolge la narrazione su sé stesso, cantando “And in my best behavior / I am really just like him / Look beneath the floorboards / For the secrets I have hid”. Questa probabilmente non è una confessione di omicidio da parte di Stevens, ma piuttosto un riconoscimento che Gacy, che soffriva di disturbo antisociale di personalità, è stato abusato emotivamente e fisicamente da suo padre da bambino oltre a essere stato molestato da un amico di famiglia all’età di nove anni, e di conseguenza forse non era attrezzato per gestire lo stress della vita nello stesso modo in cui lo siamo noi. Musicalmente, è uno dei brani più evocativi e inquietanti di Stevens. La sua voce sembra tremare, sull’orlo delle lacrime, ma non diventa mai pesante. Messo verso l’inizio dell’Illinois, dà un tono oscuro al resto dell’album.

 

 

Immagine di copertina: Flickr

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A proposito di Valeria

Valeria Vacchiarino (1999), studia Lingue e Culture dell'Europa e delle Americhe a L'Orientale di Napoli, città che ormai considera la sua seconda casa. Amante dei libri, del cinema e del teatro, ha una grande passione per la musica jazz.

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