Dal primo al 19 giugno al PAN è in esposizione “Noi che siamo carne“, la mostra fotografica di Luca Iovino, in collaborazione con L’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli e ad ingresso gratuito.
“Dei bambini giocano sotto il Cristo in croce insanguinato dove i dannati sono rappresentati avvolti dalle fiamme del purgatorio”. Così scrisse Hans C. Andersen in una sua lettera da Napoli, descrivendo ciò che vedeva osservando dalla finestra della sua abitazione in via Speranzella, così come le immagini che Luca Iovino ha portato in mostra descrive parte di un’identità, quella forte che parla di ognuno di noi, radicata fin dalla nascita e che risponde a ciò che fin da sempre appartiene a Napoli e ai suoi popoli.
Conosciamo bene il tema delle edicole sante a Napoli, come mai Luca Iovino ha voluto affrontarlo e soprattutto come ha realizzato un racconto fotografico riferendosi ad un tema cosi vasto e complesso?
«Il mio intento nella realizzazione di questo progetto è stato quello di raccontare un aspetto così “sociale” della cultura napoletana, il suo rapporto con la fede e quella venatura di misticismo e spiritualità che da sempre lo permea, attraverso l’aspetto urbanistico della città. Quello che mi ha sempre interessato è lo stretto rapporto tra uomo e città. Sono sempre più convinto che i paesaggi urbani raccontino tantissimo dell’essere umano, come l’uomo trasforma il paesaggio che lo circonda e come il paesaggio stesso radicalizzi drasticamente l’uomo, al punto tale da intersecarsi ineluttabilmente. Ciò che resta di quest’incontro rimane latente nelle pieghe della città, sono piccole tracce, impronte che noi lasciamo e che sono destinate a rimanere invisibili, fino a quando non riusciamo a porci la giusta attenzione. Credo che questo atteggiamento mi abbia aiutato in questo progetto a rivedere sotto una luce nuova quel senso di appartenenza al territorio che è insito nel popolo napoletano».
Con quale linguaggio hai deciso di intraprendere la strada che ci porta a riconoscere Napoli nei tuoi scatti e, soprattutto, cosa ti ha fatto prediligere un metodo ad un altro?
«Sin da quando mi sono avvicinato al mezzo fotografico ho quasi sempre scattato in pellicola, specialmente in bianco e nero, per avere maggior controllo poi in camera oscura. Alla nascita di questo progetto ho trovato naturale affrontarlo in questo modo, quasi per mantenere inalterato il mio approccio al soggetto/oggetto che mi sono poi trovato davanti».
Luca Iovino ha voluto rendere visibile ciò che lega tutti noi alla nostra terra
Quali e quanti tipi di ricerca hai dovuto affrontare prima di poter riportare alla luce le immagini che ci raccontano di una delle tante identità della città partenopea?
«Tendo ad avere un approccio piuttosto culturale quando decido di cominciare un progetto. Cerco letture, documentazioni e riferimenti cinematografici e letterari per assimilare sempre più impressioni che in qualche modo possano influenzare poi il mio sguardo. Nel caso di “Noi che siamo Carne” ho cercato il più possibile di approcciarmi prendendo dei punti di riferimento, dei punctum che secondo me erano il punto nevralgico del rapporto tra il popolo napoletano e la fede: la morte, l’ironia e la velata noncuranza che è sicuramente l’aspetto più interessante che ho colto raccontando questa storia».
Napoli si sa, è un’emozione da vivere, ma qual è la storia che più ti ha emozionato realizzando gli scatti in mostra?
«Le emozioni più sentite mi sono arrivate ogni qual volta le persone del quartiere in cui fotografavo incuriosite sul mio lavoro si fermavano a parlarmi. Chiedendo loro informazioni su quell’edicola in particolare spesso mi capitava di entrare in contatto con chi quell’edicola la curava, pulendola e cambiandole i fiori ormai appassiti. Erano spesso persone fortemente religiose ma che a loro modo cercavano di abbellire il posto in cui vivevano, al di là del degrado sempre dietro l’angolo, al di là dell’indifferenza degli altri che non capivano la reale importanza di quell’oggetto di fede».
Cosa ci può insegnare la tua esperienza?
«Non so cosa possa insegnare la mia esperienza, quello che credo abbia insegnato a me è che in ogni mondo possibile c’è sempre qualcosa a cui rendere giustizia. In questo caso preciso ho scoperto quanto fosse importante per me rendere giustizia alle tracce dei napoletani nella loro città, quelle orme sbiadite che raccontano così tanto di loro e del loro rapporto inscindibile con questa terra».