Congedi parentali: quella coperta troppo corta che lascia scoperte le madri

In Italia essere madre e lavoratrice è, ancora oggi, un atto di resistenza quotidiana. Nonostante l’ampliamento delle misure di sostegno alla genitorialità, il divario tra ciò che è previsto sulla carta e ciò che accade nella realtà resta abissale. I congedi parentali, oggi, sono una coperta corta, troppo corta per riuscire a proteggere i primi 12 anni di vita di un figlio. E ancora più corta per chi lavora nei settori pubblici più esposti, come la sanità. Le dipendenti della sanità pubblica, tra turni imprevedibili, notti, carenza di organico, si trovano incastrate in un sistema che offre strumenti rigidi, parziali e insufficienti. I congedi facoltativi (oggi retribuiti all’80% solo per i primi due mesi) sono spesso un privilegio per chi ha contratti stabili e retribuzioni medie: chi guadagna meno, spesso non può permettersi di prenderli. E chi ha più figli, si ritrova a dover scegliere: prendersi cura o lavorare. Se poi pensiamo al fatto che la “child penalty”(quella penalizzazione lavorativa che colpisce le donne dopo la nascita di un figlio) è un dato strutturale: il 25% delle madri under 35 abbandona il lavoro dopo il primo figlio, contro il 12% delle over 35. Se i padri migliorano la propria carriera, le madri rallentano, si fermano, si precarizzano. E se osano avere un secondo figlio, spesso lo pagano con l’azzeramento della crescita professionale e salariale.

I dati INPS ci dicono che solo il 6% dei padri utilizza il massimo dei congedi parentali, mentre il 40% delle madri li esaurisce nei primi anni di vita del bambino, spesso senza alcun supporto condiviso. E non si può nemmeno trasferire il congedo non usufruito dal padre alla madre: un’assurdità normativa che lascia scoperti mesi fondamentali nella cura dei figli.

A tutto questo si aggiungono le storture giuridiche che emergono in sempre più casi. Se il padre è residente all’estero, per esempio a San Marino, il figlio residente in Italia perde ogni diritto a congedi e permessi da parte paterna. E nemmeno la madre può usufruire di quel tempo non fruito. Una lacuna non solo normativa, ma culturale: le famiglie non standard, le situazioni atipiche, non vengono nemmeno considerate.

Nel frattempo, chi non può contare su nonni o reti familiari è costretto a lasciare i figli, anche piccoli, a babysitter che spesso non hanno alcuna formazione certificata. E che, dall’oggi al domani, possono dire: “Domani non vengo”, “Vado in ferie”, “Ho dei problemi”. E allora chi chiama il lavoro? Chi manda una mail all’infermiera che non ha a chi lasciare il figlio? Nessuno. Perché non c’è un sistema di riserva. E così, molte madri spendono tutto lo stipendio per pagare la cura di un figlio, affidandolo a una sconosciuta per ore. E lo fanno con ansia, senso di colpa, solitudine. Non per scelta, ma perché non esiste alternativa concreta.

Negli ultimi anni, l’Italia ha ampliato gli strumenti per la genitorialità: Assegno unico, bonus nido, bonus mamme, incentivi ai congedi. Ma sono politiche parziali, non strutturali. L’assegno unico, pur esteso al 94,6% dei bambini, non incide realmente sull’equilibrio tra cura e lavoro. Quei pochi euro del bonus nido coprono solo una parte dei costi e spesso arrivano mesi dopo. Il “bonus mamme” del 2024 (esenzione contributiva per chi ha due o più figli) è positivo, ma temporaneo. Serve una riforma sistemica, non una pioggia di piccoli interventi scollegati.

L’Italia ha un tasso di natalità fermo a 1,2 figli per donna, tra i più bassi d’Europa. Ma l’inverno demografico non è un mistero biologico: ha radici economiche, sociali, culturali. Le madri scelgono di fermarsi a un solo figlio perché non possono permettersi altro. Perché fare un secondo figlio significa, per molte, scegliere tra la maternità e la sopravvivenza lavorativa. Nel frattempo, il 53,1% delle donne lavora, contro il 66,3% della media europea. E quelle che restano, spesso, pagano in solitudine ogni mancanza del sistema: giorni non coperti, ore di assenza da giustificare, soldi spesi per coprire vuoti che lo Stato ignora.

Non bastano i bonus, né i proclami. Serve una visione strutturale della genitorialità: congedi realmente condivisibili e reversibili, perché se poi vogliamo andare nel dettaglio, in Italia, la normativa sul congedo parentale prevede che entrambi i genitori abbiano diritto a un periodo di astensione dal lavoro retribuito, entro i primi 12 anni di vita del figlio, con un monte ore individuale o cumulativo. Tuttavia, non è possibile “trasferire” i giorni non usufruiti dal padre alla madre, anche nei casi in cui: il padre non può utilizzare i congedi perché risiede all’estero (in uno Stato extra-UE o, in alcuni casi, anche UE ma fuori dalla convenzione amministrativa INPS); il padre non lavora in Italia, oppure ha un contratto non riconosciuto dai sistemi previdenziali italiani; il padre ha riconosciuto il figlio, ma non esercita alcun ruolo genitoriale effettivo, né è disponibile a collaborare nella gestione dei congedi.

Andiamo nel caso particolare: una madre italiana, che ha un figlio con un padre residente a San Marino. Poiché il padre non lavora in Italia e risiede fuori dai confini nazionali, non può richiedere il congedo parentale. Fin qui, comprensibile. Ma la madre non può nemmeno accedere ai giorni che sarebbero spettati al padre, nemmeno in via sostitutiva o straordinaria. Il risultato? Un buco di tutela legale e pratica.

Chi paga questo vuoto normativo? Le madri sole e i bambini e le conseguenze sono gravissime: le madri devono consumare ferie e permessi per ogni esigenza del figlio, fino a esaurimento; una volta finiti i congedi obbligatori, si trovano senza alcuna protezione nei primi anni di vita del bambino; sono spesso costrette a lasciare il bambino con persone non certificate, babysitter occasionali, oppure ad abbandonare il lavoro per mancanza di alternative. È assodato che le famiglie non possono accedere a un supporto pubblico equivalente, come avverrebbe nel caso di genitori entrambi residenti in Italia. Non esiste una procedura straordinaria per i casi di genitori non conviventi, residenti all’estero, o impossibilitati a esercitare la genitorialità. Interroghiamoci perché questo vuoto? La normativa si fonda su una struttura simmetrica e rigida, che presume che: entrambi i genitori risiedano e lavorino in Italia; ci sia un accordo o una gestione condivisa dei permessi; la genitorialità sia esercitata in modo equilibrato e giuridicamente simmetrico. Ma questa non è la realtà di migliaia di famiglie italiane. Con l’aumento delle relazioni internazionali, delle coppie non conviventi, delle famiglie miste o divise da confini fiscali o geografici, la legge resta ancorata a un modello familiare anni ’60.

(Di Yuleisy Cruz Lezcano)

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