Quando si parla di rape culture – in italiano cultura dello stupro – ci riferiamo ad un paradigma culturale, diffuso ormai da anni, secondo il quale gli atti di violenza vengono normalizzati e talvolta minimizzati, a causa di un’associazione distorta – ma sempre più comune- della sessualità alla violenza, che porta a vedere desiderabili o persino sexy alcuni modi di fare e atteggiamenti abusivi da parte degli uomini. Tuttavia risulta, ancora oggi, difficile trovare una chiara definizione del termine rape culture, in quanto si tratta di una cultura che comprende uno spettro molto ampio di credenze in grado di innescare un meccanismo atto ad incoraggiare l’aggressività sessuale maschile in vari contesti, includendo sia fenomeni di aggressività e invadenza verbale quali il catcalling, le cosiddette molestie di strada e sia le molestie fisiche, fino ad arrivare a casi di stupro vero e proprio.
Le conseguenze della rape culture
Se da una parte queste forme di aggressività vengono sottovalutate e in alcuni casi normalizzate da una società che non ha gli strumenti adatti per contrastarle a pieno, d’altro canto per la donna inizia, per esempio, ad essere normale avere paura di passeggiare in una zona isolata la sera tardi. Questa, come, molte altre paure che donne di qualsiasi età hanno, consente di normalizzare una diretta conseguenza della rape culture: il concetto secondo il quale la donna deve inevitabilmente provare una sorta di terrorismo emotivo e psicologico, oltre che fisico. Oggi, sempre più casi di cronaca ci ricordano, attraverso i media, l’enorme complessità che si trova alla base di episodi che hanno a che vedere con la cultura dello stupro. La stessa complessità che spesso, a causa di una serie di falsi stereotipi e credenze socio-culturali, porta le donne a non voler mettersi in discussione, decidendo di conseguenza di non denunciare.
In questo articolo vedremo, quindi, 5 miti da sfatare relativi alla rape culture:
1. Chi incoraggia la rape culture crede che se una donna è stata stuprata, se la sia cercata
Il mito legato all’idea dell’«essersela cercata», ha a che vedere con un certo tipo di comportamento o di vestiario della donna. Si tende a pensare che se una ragazza sia vestita in modo provocatorio e assuma atteggiamenti più disinibiti, ci sono maggiori probabilità che attiri le attenzioni indesiderate di un uomo. Sebbene questo mito abbia a che fare con un retaggio culturale abbastanza radicato che sfocia poi nella rape culture, nessuno dovrebbe incolpare una donna per il modo in cui si veste e si comporta poiché, del resto, non è una gonna più lunga a fare la differenza e a scagionare un eventuale stupratore. Eppure il mito che vede protagoniste le donne colpevoli di essersela cercata, continua ad essere un rilevante oggetto di discussione, tanto nelle più importanti sedi giudiziarie quanto nei salotti televisivi.
2. Una donna stuprata deve avere segni visibili della violenza
Tra le false credenze più diffuse legate alla rape culture troviamo il concetto secondo il quale si è state vittime di uno stupro o di un abuso, solo se il nostro corpo ha riportato evidenti segni o ferite. L’inevitabile risvolto è la minimizzazione o negazione da parte della vittima riguardo all’accaduto, per via della scarsa considerazione e importanza data alle sue parole. La vittima stessa, talvolta, finisce per credere di essersi davvero inventata tutto, a causa della poca credibilità attribuita alla spiegazione del suo trauma fisico ed emotivo anche in contesti giuridici. La donna vive, di conseguenza, un trauma ancora più frustrante poiché realizza che la scelta di aver denunciato e non essere rimasta in silenzio, non è stata sufficiente.
3. La vittima di uno stupro deve denunciare subito l’accaduto
Uno dei falsi miti più diffusi riguardanti la rape culture vede il pensiero secondo il quale una donna, dopo esser stata vittima di un abuso, debba subito denunciare l’episodio. Al tempo stesso, tuttavia, si tende a sottovalutare che la vittima vive in un grande stato di shock soprattutto durante il periodo successivo all’accaduto, che la porta a provare un profondo senso di vergogna e autocolpevolezza. Sono sempre di più, d’altronde, le donne che convivono con un grande senso di colpa a causa di ciò che hanno dovuto subire. I tempi e le modalità per metabolizzare un’esperienza così traumatica variano da persona a persona e, dunque, non possiamo pretendere che tutte le donne abbiano la stessa prontezza nello scegliere di denunciare subito l’accaduto.
4. Durante lo stupro la donna può dire di no
Dal punto di vista psicologico il corpo e la mente della donna vittima di una violenza sessuale reagiscono in base ad una particolare risposta alla paura: il freezing, un momento specifico di immobilizzazione o meglio di congelamento che vede coinvolto il corpo della donna violentata. È esattamente questo stato di congelamento, dalla durata di pochi secondi, che non consente alla donna di comunicare con il suo aggressore, impedendole così di reagire, parlare, scappare o urlare. Tutto ciò dimostra, dunque, che – a differenza di quel che molti pensano – il silenzio non è una forma di consenso da parte della vittima.
5. La vittima, per essere creduta, deve essere sconvolta dopo lo stupro
Un quinto mito da sfatare rispetto alla rape culture, riguarda il fatto che non sempre le donne, di fronte ad un’esperienza particolarmente tragica e devastante come uno stupro, reagiscono piangendo e provando tristezza. Eppure se non reagiscono come la società si aspetta che facciano, non vengono credute. Lo stato emotivo e psicologico di una donna stuprata può assumere una vasta gamma di sfaccettature, portando alle conseguenze più disparate. Tra le più diffuse troviamo quella che, in psicologia, viene chiamata dissociazione, ovvero la disconnessione tra alcuni meccanismi psichici e l’intero sistema psicologico di una donna, che porta spesso ad avere ricordi legati all’esperienza traumatica molto confusi.
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