La regione delle donne senza utero in India

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Da secoli, milioni di donne nel mondo si battono per i diritti propri e per quelli delle altre donne che non hanno voce. E nonostante l’impegno, lo sforzo e i passi fatti in avanti, la strada è ancora lunga. Ed è lunga certamente per i salari differenziati per posizioni uguali, per la libertà di circolare in strada con tranquillità indipendentemente dall’abbigliamento, ma è lunga soprattutto per le donne cui vengono negati i diritti fondamentali in paesi troppo lontani dal nostro per accorgercene. Negli ultimi tempi, nelle comunità più rurali dell’India, in particolare a Beed, città indiana nello stato del Maharashtra, un allarmante numero di giovani donne sceglie di sottoporsi a isterectomia. Questa pratica chirurgica prevede la totale asportazione dell’utero e il suo scopo è tutelare le donne da condizioni potenzialmente letali. Spesso si pratica in seguito a gravidanze e a parti cesarei difficili e l’età consigliabile è sempre oltre i 40 anni.

I motivi che spingono queste giovanissime donne a sottoporsi a un intervento tanto invasivo, però, non sono legati alla sfera personale ma a quella lavorativa. Per comprendere bene il contesto, però, sarà necessario contestualizzarlo.

Il contesto

Negli ultimi anni, a causa di una forte siccità prolungata, il fallimento dei raccolti ha causato una serie di problemi collaterali come l’accumulo di debito tra gli agricoltori, un aumento dei costi dell’agricoltura parallelo al calo delle vendite dei prodotti agricoli e la mancanza di opportunità di lavoro alternative. Per questo motivo, c’è stata una migrazione di massa in alcune città che vengono definite “della cintura dello zucchero”. Si parla di diverse città del Maharashtra occidentale e del Karnataka, regione a sud del paese, in cui centinaia di migliaia di persone si trasferiscono nel periodo che va da ottobre a maggio per lavorare nei campi di canna da zucchero.

Il lavoro è arduo e fisicamente faticoso. Agli operai, infatti, tocca legare, caricare, scaricare e trasportare la canna da zucchero alle fabbriche. Di solito si lavora in coppia – spesso marito e moglie – che vengono supervisionati dai mukadams. Queste figure si occupano di fare da ponte tra il lavoro in fabbrica e quello all’interno dei campi nei processi di taglio della canna.

Ma cosa c’entra tutto questo con le donne costrette a farsi asportare l’utero?

Bisogna pensare che nei campi una giornata di lavoro dura all’incirca 12/13 ore. Per un’intera stagione ogni operaio viene pagato tra le 50.000 e le 60.000 rupie (in euro 560€/670€). Il problema più grave, però, è che per ogni giorno di lavoro mancato sono costretti a pagare una multa di 500 rupie (circa 5€). Inoltre, trattandosi di una “migrazione” temporanea, i braccianti si sistemano in piccole capanne nei pressi dei campi. Le strutture sono sprovviste di qualunque tipo di servizio: mancano servizi igienici, acqua potabile e strutture igienico-sanitarie adeguate. Queste condizioni nuocciono gravemente alla loro salute. Nuocciono in particolare alla salute delle donne che riscontrano infezioni e problemi all’utero.

Le donne con l’utero in India non lavorano

Le donne che vivono in queste zone dell’India non vengono costrette all’asportazione dell’utero, ma neanche hanno diritto di parola. Quello che può sembrare un paradosso è la difficile condizione che sono costrette a vivere decine di migliaia di ragazze. I mukadams, infatti, non costringono le donne a sottoporsi a isterectomia (anche se molti scelgono di non “assumere” chi ha ancora l’utero), ma le multe salate spaventano così tanto da non avere altra scelta. O meglio, un’altra scelta sarebbe quella di evitare di emigrare, ma si tratta di una decisione che viene presa dal capofamiglia, di solito i mariti ma anche i padri o i suoceri. Nonostante la precarietà del lavoro e il peso delle condizioni di vita vulnerabili, queste giovani donne non hanno alcuna autonomia nel prendere decisioni sulla propria vita.

 

Fonte immagine: Pixabay.

A proposito di Cinzia Esposito

Classe ’96 e studentessa magistrale in Corporate communication e media all’Università di Salerno. Vengo da una di quelle periferie di Napoli dove si pensa che anche le giornate di sole vadano meritate, perché nessuno ti regala niente. Per passione scrivo della realtà che mi circonda sperando che da grande (no, non lo sono ancora) possa diventare il mio lavoro.

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