Videogiochi, perchè l’ex ministro Calenda ha torto

Videogiochi, perchè l'ex ministro Calenda ha torto

A tutti i videogiocatori e semplici appassionati non sono passate inosservate le parole dell’ex ministro Calenda riguardanti i videogiochi. Le risposte non hanno tardato ad arrivare e hanno riacceso il dibattito sul medium videoludico nel nostro paese.

Le dichiarazioni del ministro Calenda

Attraverso una discussione su Twitter riguardante l’educazione dei ragazzi, Carlo Calenda ha affermato che bisogna «salvarli dai videogiochi», in quanto attività che comprometterebbe l’apprendimento e li allontanerebbe dalla lettura e dallo sport. Esperti del settore e comuni videogiocatori hanno fatto notare all’ex ministro quanto le sue affermazioni fossero oramai superate, senza però fargli cambiare idea.

La posizione del ministro Calenda rispecchia la mentalità elementare di gran parte degli italiani sui videogiochi, da sempre considerati un inutile passatempo per i giovani. In realtà basterebbe avere voglia e pazienza di approfondire un poco di più l’argomento per comprendere come questi pensieri non siano altro che frutto di un’ignoranza derivante da un morboso amore verso un ideale passato.

I videogiochi sono arte

Per prima cosa bisogna considerare il fatto che il videogioco, piaccia o meno, è da considerare a tutti gli effetti una forma d’arte e, come ogni arte che si rispetti, è in continuo divenire. Di generazione in generazione, il lavoro appassionato e coraggioso di programmatori e software house ha contribuito a dar vita ad opere che, per narrazione ed estetica, possono correre sullo stesso binario dei più grandi romanzi e dei più importanti film: da The Last Of Us alla saga di Final Fantasy, passando per Metal Gear Solid e Assasins’ Creed. Basta anche solo guardare il gameplay su Youtube di questi titoli per capire che i tempi di Pong sono belli che lontani. Ci troviamo davanti a storie, personaggi, luoghi e intrecci con cui si crea una forte empatica, capaci di emozionarci e di intrattenerci.

In fin dei conti questa polemica ricorda quella che all’inizio dell’900 interessò il nascente cinematografo. Intellettuali, scrittori e filosofi si scagliarono contro la creatura dei Lumiére, definendola uno spettacolo da baraccone e indegna di competere con il ben più nobile teatro. Ma il contributo di personalità incuriosite, unito all’inventiva e alla spregiudicatezza dei registi hanno permesso al cinema di divenire la “settima arte”.

La stessa cosa può succedere anche con il videogioco: ci saranno sempre detrattori pronti a screditarne il valore, ma allo stesso tempo il contributo di tanti programmatori e l’interesse che suscita negli studi accademici relativi alle forme dell’audiovisivo gli renderanno giustizia.

Un joypad per ragionare

Se si continua a leggere su Twitter la dichiarazione dell’ex ministro Calenda, ci si imbatte in questa frase: «Il problema è la passività rispetto alla lettura e al gioco. Reagisci non agisci. Inoltre, abituano la mente a una velocità che rende ogni altra attività lenta e noiosa». Nulla di più sbagliato: si potrebbero citare un’infinità di studi che dimostrano come il videogioco possa aiutare a sviluppare le attività cognitive e persino fisiche del giocatore mettendolo di fronte ad enigmi e problemi da risolvere. A tal proposito al Lucca games & comics di quest’anno è stato inaugurato il primo Game science center, il cui obiettivo è proprio quello di analizzare il videogioco come strumento di divulgazione e di sviluppo delle competenze dell’individuo.

Nessuno mette in dubbio il fatto che dedicare ore e ore della giornata a giocare con una console faccia male, così come mangiare troppo o fare troppo sport. Ma definire il videogioco come responsabile principale delle scarse abilità cognitive dei ragazzi rasenta il ridicolo, in quanto ben evidenzia il fatto che dicendo così non si tiene conto degli innumerevoli studi fatti sull’argomento.

La pateticità del binomio “videogiochi = violenza”

Non appena la notizia delle dichiarazioni è rimbalzata sui social, gran parte dei commenti degli utenti hanno riportato a galla una delle tematiche più controverse sull’argomento: il rapporto tra videogiochi e violenza e di come questo medium sia stato spesso messo in relazione con tragici eventi di cronaca (uno su tutti, il massacro alla Columbine High School).

È innegabile che, nel corso degli anni, di videogiochi con un alto tasso di sangue e di violenza ne siano usciti a iosa: pensiamo a Mortal Kombat, Carmageddon, la saga di Resident Evil, Grand Theft Auto e anche progetti indie nostrani come Grezzo 2. Ma anche in questo caso si rischia di cedere alla tentazione di fare di tutta l’erba un fascio. Pensare che un videogioco istighi per principio a comportamenti violenti o che possa traumatizzare i ragazzi rasenta forse l’ipocrisia peggiore di questo mondo.

La nostra civiltà culturale non ha mai disdegnato più di una visita al mondo del cruento e del disturbante. Fin da giovani abbiamo letto i miti classici in tutta la loro efferata crudezza, così come abbiamo letto delle innumerevoli torture che i dannati subiscono nell’Inferno di Dante, passando per le fiabe dei fratelli Grimm e i racconti di Edgar Allan Poe. Che dire poi dei dipinti di Munch, Dalì e di tanti altri pittori che hanno rappresentato l’inquietudine dell’uomo con tratti angosciosi e spaventosi? Se un giorno decidessimo di censurare queste e altre manifestazioni dell’intelletto umano solo perché potrebbero incitare le persone a compiere gesti violenti e distruttivi, agiremmo senza raziocinio.

Allo stesso modo i ragazzi non possono diventare violenti per mezzo dei videogiochi, se non si commette l’errore di usare quest’ultimi come sostituti dei tutori e se i genitori si prendono qualche oretta per giocare assieme al figlio, magari cercando di spiegargli ogni cosa che appare sullo schermo. Chi scrive appartiene a quella generazione di coetanei che ha picchiato un sacco di avversari agguerriti su Tekken e che ha usato un bazooka per far saltare in aria i propri nemici in Crash Bandicoot 3, senza risentirne sulla salute psichica condotta morale.

Il vostro passato non è il nostro presente

Nonostante la questione sia stata sviscerata fino in fondo, è cosa certa che l’uscita del ministro Calenda sia lievemente contornata da un fattore generazionale. Nel nostro paese resiste irriducibile quell’atteggiamento passatista, fatto di nostalgia verso un ieri edenico e scrigno di valori ed idee irripetibili.

«Ai miei tempi si viveva meglio, senza tutte queste sciocchezze tecnologiche. C’era più rispetto, più spirito di sacrificio. Voi giovani siete viziati e privi di valori!». Tante volte sentiamo o leggiamo questa e altre frasi simili rivolte nei nostri confronti, un obsoleto metro di paragone sempre indirizzato a dare ragione alla generazione del ’68, del sesso libero e delle droghe, del concerto di Woodstock e dei Pink Floyd, del Jukebox e dei cinema all’aperto. Una generazione, quella dei nostri genitori e parenti, tanto legata al passato che ha sviluppato un atteggiamento fobico nei confronti del nuovo che non capisce e che si sente in diritto di demonizzare per principio.

E noi giovani ci siamo stancati. Siamo stufi di questo mito del passato che ci viene continuamente sbattuto in faccia, usato come arma per screditare il nostro mondo di valori e idee e i modi con cui cerchiamo di veicolarli. Oggi sono i videogiochi, domani saranno le parole di troppo di un cantante o di uno scrittore, dopodomani gli anime o qualche cartone animato “politicamente scorretto”. Tutto in nome di un perbenismo stantio che vorrebbe decidere come dovremmo vivere la nostra vita e a cui noi non abbiamo intenzione di adattarci.

Ciro Gianluigi Barbato

 

A proposito di Ciro Gianluigi Barbato

Classe 1991, diploma di liceo classico, laurea triennale in lettere moderne e magistrale in filologia moderna. Ha scritto per "Il Ritaglio" e "La Cooltura" e da cinque anni scrive per "Eroica". Ama la letteratura, il cinema, l'arte, la musica, il teatro, i fumetti e le serie tv in ogni loro forma, accademica e nerd/pop. Si dice che preferisca dire ciò che pensa con la scrittura in luogo della voce, ma non si hanno prove a riguardo.

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