Campo di concentramento di Manzanar: la prigionia dei giapponesi

Campo di concentramento di Manzanar: la prigionia dei giapponesi

Quando si parla di campi di concentramento, non si può non pensare al popolo ebreo e al regime nazista. Eppure, nonostante sia difficile da credere, durante la seconda guerra mondiale oltre alla comunità ebraica anche un altro popolo fu oggetto di trattamenti inumani da parte di uno stato: stiamo parlando dei Giapponesi, internati nel campo di concentramento di Manzanar dopo l’attacco a Pearl Harbor sotto ordine dell’allora presidente americano Franklin D. Roosevelt. 

L’attacco di Pearl Harbor, le contromisure del governo statunitense e l’internamento nel campo di concentramento di Manzanar

All’alba del 7 dicembre del 1941, il governo giapponese decise di attaccare gli Stati Uniti nonostante l’assenza di una dichiarazione di guerra formale. Una flotta di portaerei, corazzate, incrociatori e altre navi della Marina imperiale giapponese bombardarono la United States Pacific Fleet e le installazioni militari statunitensi di Pearl Harbor, sull’isola di Oahu, nell’arcipelago delle Hawaii. In termini di morti l’attacco fu un massacro: quasi 2500 persone persero la vita e più di mille rimasero feriti. Il Giappone riuscì a vincere tatticamente la battaglia e gli Stati Uniti gli dichiararono formalmente guerra. In seguito alla tragedia di Pearl Harbor, il governo americano decise di adottare delle contromisure drastiche. A partire dal 1942 più di 110.000 Giapponesi residenti negli Stati Uniti, per lo più lungo la costa del Pacifico, vennero trasferiti e internati nei campi di reinsediamento del periodo di guerra. L’internamento nei campi di concentramento fu applicato in maniera diversa in tutti gli Stati Uniti: i Giapponesi residenti sulla costa occidentale furono tutti internati, mentre alle Hawaii solo 1200 su 150.000 furono trasferiti nei campi di concentramento. Il presidente Roosevelt autorizzò l’operazione con l’Ordine Esecutivo 9066 il 19 febbraio 1942. Una volta entrato in vigore l’ordine, le famiglie nippoamericane furono costrette in brevissimo tempo a recuperare le loro cose e a lasciare le loro case senza sapere dove sarebbero stati portati. Migliaia di persone furono deportate sotto scorta militare a Manzanar, il più grande campo di concentramento per Giapponesi negli Stati Uniti. 

Il razzismo dei media nei confronti dei Giapponesi

Se prima della seconda guerra mondiale i Giapponesi venivano visti come una risorsa per gli Stati Uniti e come grandi lavoratori in grado di offrire al paese più di quanto prendessero, in seguito all’attacco di Pearl Harbor iniziò a diffondersi una sorta di astio nei loro confronti, un ripudio che ben presto si trasformò in vero e proprio razzismo. I giornali più famosi del tempo iniziarono a dipingere le famiglie nippoamericane come un nemico subdolo da eliminare all’istante. «Una vipera nasce vipera dovunque sia stato deposto l’uovo» scrisse il New York Times e ancora, sulle vetrine dei negozi campeggiavano grandi cartelli con su scritto «No Japs wanted» (Non vogliamo i Giapponesi). Si tennero addirittura corsi per insegnare alla gente come distinguere i tratti somatici giapponesi da quelli dei cinesi. È evidente che queste azioni non siano molto distanti da quelle messe in atto dal governo nazista a partire dal 1935. 

Il racconto fotografico del campo di concentramento di Manzanar a cura di Dorothea Lange e Ansel Adams

Col fine di testimoniare l’esistenza del campo di concentramento per Giapponesi, Ansel Adams, famoso fotografo statunitense, decise di recarsi personalmente a Manzanar. Presso il campo di concentramento, Adams osservò da vicino il trattamento che il governo statunitense riservava ai Japs: le rivolte erano all’ordine del giorno e le guardie non si facevano troppi scrupoli ad ammazzare i deportati. Adams desiderava fortemente creare una testimonianza di ciò che aveva visto ma gli fu severamente proibito di scattare qualsiasi foto. È così che decise di scrivere un libro dal titolo Born Free and Equal. Contro qualsiasi aspettativa il libro fu autorizzato e in seguito pubblicato. La testimonianza più coraggiosa, però, si deve a Dorothea Lange che realizzò un fortissimo reportage fotografico. Anche lei si recò presso il campo di concentramento di Manzanar ma a differenza di Adams, violò gli ordini: Dorothea scattò foto alle persone recluse, al filo spinato e alle costruzioni. Le sue foto non furono pubblicate fino al 1988, anno in cui il Congresso Usa approvò una mozione di pentimento e scuse. 

Attualmente a Manzanar c’è solo la bandiera degli Stati Uniti che sventola nel deserto, lo stesso deserto su cui ottant’anni fa sorgeva il campo di concentramento per Giapponesi

Fonte immagine: Wikimedia Commons

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