Generazioni a confronto: chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?

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Siamo i pessimi eredi delle generazioni che ci hanno messo al mondo.

Una sbirciatina non troppo superficiale in una scuola, in un bar o in una palestra potrebbe capacitarci di qualcosa di scandaloso. I nostri figli nasceranno tutti orfani. Orfani, perché non avremo nulla da offrire loro. Avremo già spazzolato via tutto, con l’ingordigia e l’ingratitudine con cui abbiamo ingurgitato e ruttato il patrimonio delle generazioni che ci precedono, della storia che ci ha fatto nascere.

Siamo i figli troppo obbedienti dei nostri genitori. Troppo obbedienti, perché loro hanno voluto per noi la vita sfaccendata e voluttuosa che era totalmente al di fuori dei loro orizzonti. Noi, da prole premurosa, abbiamo intascato facilitazioni, comodità, agi, senza chiederci da dove provenissero.

Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Si intitola così un’opera di Gauguin. Anche se, tristemente, abbiamo smesso di domandarcelo. Le domande esistenziali sono perite per sempre. Spaparanzati davanti alla serie tv della nostra vita, siamo spettatori passivi e ipernutriti di quello che altri hanno deciso per noi. Non siamo stati in grado di erigere più alcuna Piramide. Abbiamo fatto molto meno dei Greci, ci siamo fatti beffe dell’austero Impero Romano. I nostri dei si chiamano Inettitudine e Tracotanza. Sbuffiamo pigramente per le vite che conduciamo senza immaginare di non meritarle affatto.

Da dove veniamo? Veniamo da gente in gamba, che si è rimboccata le maniche per andare oltre la propria storia, per riscattarsi. Che faticosamente ha cominciato a capire cos’era la cultura, ad abbordarla timidamente, e quando non poteva abbordarla ha almeno imparato l’arte della dissimulazione. La generazione che ci precede è figlia di massaie e veterani, venuta appena dopo una guerra in cui non si poteva dissimulare proprio niente. Figli di massaie e veterani che hanno già cominciato a fare meno di loro, ma sono stati autori di una scoperta interessante: che c’è qualcosa al di là della mera sopravvivenza.
I nostri genitori si sono sforzati di diventare animali intellettuali, di fare vacanze di piacere e di bisticciare per motivi che non erano la vita e la morte. Hanno avuto i primi contatti con l’inutile, con il bello gratuito, con la cura di sé. Hanno capito il senso di una pedagogia che non ha a che fare con la pura riverenza patriarcale. I nostri genitori hanno avuto vite difficili, meno difficili dei loro genitori. Il processo è stato scalare; e su una scala da 1 a 10 di difficoltà, la nostra esistenza prende l’ascensore.

Chi siamo? Siamo il grasso, un pacco sproporzionato portato a stento da una cicogna con il mal di schiena per i troppi voli a digiuno. Abbiamo coniato il concetto di ipocondria e anche un umore standardizzato per ogni giorno della settimana. Abbiamo defecato senza tante cerimonie sulla meritocrazia, sull’etica del lavoro, su qualunque discernimento tra giusto e sbagliato. Non veniamo più a contatto con niente che non abbia prima valicato la dogana dell’omologato e del confortevole. La verità è che il nostro progresso ci decapita, perché mozza il nostro ingegno, la nostra inventiva e anche la libertà dell’errore.

Dove andiamo? Non siamo solo decapitati dalle nostre creature digitali, – dallo smartphone portato in giro alla stregua di un organo vitale fino alla catena di montaggio che ha rivoluzionato il modo di fare industria – ma siamo stati resi anche tetraplegici dalla nostra fissazione di conquistare il mondo restando in una stanza in compagnia dello schermo di un tablet. Non stiamo andando da nessuna parte, a meno che non sia localizzabile dal Gps.

In sostanza, ci siamo involuti in ominidi perfettamente rasati, che brandiscono i loro nuovi mezzi di sussistenza, ma con capacità cognitive e comunicative sempre più svilite. Il progresso per cui le generazioni che abbiamo seppellito si sono spompate ci ha resi repressi, depressi. Nasciamo già panciuti, già di malumore. Non impariamo più niente che Google non sappia già da prima, e quando ce lo spiega non sappiamo più che farne di un sapere senza temperatura come quello. Possiamo studiare il tasso di alfabetizzazione nel mondo o la diffusione di malattie infettive in una certa area del globo dalle nostre case ultramoderne, che hanno la tv nel bagno. Siamo ricchi, più ricchi dei nostri nonni, ma abbiamo la povertà dell’osservazione. Vanifichiamo la storia che ci hanno regalato per il fatto di aver incarnato la degenerazione di qualunque antieroe novecentesco che abbiamo il lusso di studiare.

La storia è su un metro tarato, mi ci voglio avvicinare un po’.
Non siamo stati educati per andare oltre. Non c’è nessun’altra storia dopo la nostra idiozia. Guardo me stessa, poi i miei coetanei, e scopro un difetto, una crepa comune. Non sappiamo essere più grandi dei vecchi. Proprio così. Non siamo buoni eredi. Divoreremo tutte le risorse procurate con sacrificio e non sapremo mettere niente in dispensa.
Non abbiamo più talenti, perché possiamo averli tutti. Tutti possono scrivere, e tutti sono belli. Non c’è più bisogno di nascere sotto l’ala giusta o di impegnarsi a cucirsene una per far fruttare la propria vita. Tutti possono tutto e quindi anche niente. Dare indistinte possibilità a tutti corrisponde a dare una buona possibilità a nessuno. I nostri figli nasceranno già orfani, perché non avremo niente da insegnare.

È una denuncia che rivolgo a te, a me, a chiunque si sforzi di leggere parole battute a computer senza dimenticare l’odore della carta. Non dimentichiamoci delle domande esistenziali solo perché possiamo appuntarle in un promemoria.

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A proposito di Duilia Giada Guarino

Il mio nome è Duilia e sono laureata in Filologia moderna. La mia vocazione più grande è la scrittura, in tutte le sue forme.

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