Cosa fare quando non si sa cosa fare: momenti di disorientamento
Può sembrare un titolo paradossale, quasi come un rompicapo linguistico senza una via d’uscita concreta e immediata. Può sembrare anche l’ennesimo vademecum con la presunzione di fornire facili precetti o consigli preconfezionati per un vivere che sia migliore e più appagante. E forse, in parte, effettivamente lo è, perché la volontà di abbandonare i cliché è sempre una pretesa ambiziosa. Eppure sicuramente tutti quanti si sono chiesti, almeno una volta nella vita, che cosa fare di concreto quando non si sa assolutamente cosa fare.
Ci riferiamo chiaramente a quei momenti di profondo disorientamento interiore, in cui la luce della ragione sembra essersi spenta improvvisamente e si brancola faticosamente nel buio più fitto, vivendo tristemente alla giornata in attesa di ritrovare prima o poi la bussola perduta. Ci riferiamo a quei momenti difficili in cui semplicemente non si sa proprio cosa fare: nel pomeriggio, il giorno dopo, con noi stessi, sul lavoro, su quelle pagine difficili che proprio non vogliono entrare nella nostra testa, nel grigiore opprimente di un dolore che è appena passato o in una tappa particolare dell’esistenza che appare apparentemente senza un significato preciso. A quei momenti che si identificano per lo più con il sentimento, da sempre sottovalutato e poco compreso, della noia, un’esperienza umana universale. A quei momenti in cui si ritorna inevitabilmente a porsi le domande di sempre, le stesse che si poneva con fervore il nostro lontano antenato scarabocchiando con cura sulle pareti irregolari di una caverna i propri tentativi di comunicazione ed espressione, le stesse che Gauguin ha steso con passione sulla propria tela sul finire dell’Ottocento, un artista che ha saputo esprimere il disagio esistenziale. Torniamo puntualmente a chiederci chi siamo veramente, in che senso, e in che modo, e soprattutto cosa fare della nostra esistenza. Spesso, purtroppo, non viene in mente neanche una risposta plausibile a queste domande esistenziali. Se la bussola non salta fuori in tempi che siano ragionevoli, allora si cerca con insistenza di mettere in comune la questione spinosa con gli altri, per cercare così di normalizzarla il più possibile. Perché chiaramente quando una cosa viene normalizzata, depauperata delle sue tinte che sono drammatiche, si è senza alcun dubbio più razionali nel rispondere puntualmente a quello che capita. Al senso di disorientamento profondo e alla noia che diviene cronica in certi periodi si reagisce in modi che sono vari e diversi, seguendo anche dei tempi che non sono uguali per tutti.
Cosa fare quando non si sa cosa fare: le false soluzioni
Tra i primi istinti che si manifestano con veemenza c’è senz’ombra di dubbio quello di disperarsi senza limiti. Piangersi ininterrottamente addosso perché purtroppo non si hanno soluzioni a portata di mano, frignare in modo esagerato per la propria inconcludenza lampante finché qualcosa cambia in modo autonomo e si può in fondo far finta di dimenticare la propria reazione che è stata puerile. Si attende così a braccia beatamente spalancate che il fato misterioso travolga implacabile ogni cosa e si rinuncia così, ancora una volta, a partecipare attivamente alla propria esistenza da primi attori, restando a fare da semplice compagnia alla propria ombra che ci segue ovunque.
Il secondo istinto ricorrente è purtroppo quello di incolpare a tutti i costi qualcuno che ci circonda. Addebitare a chicchessia (gli ex fidanzati e le ex fidanzate sono purtroppo i bersagli prediletti in questi casi, seguiti da madri ingombranti, da fratelli e sorelle che hanno ottenuto molto più di quanto avrebbero dovuto, a colleghi che hanno ricevuto ingiustamente qualcosa che invece spettava di diritto a noi, ad amici che sono fin troppo innocenti) la responsabilità di questa propria fermata che è del tutto imprevista, invece di accettare la cosa come uno dei tanti possibili paesaggi che incontriamo durante il meraviglioso viaggio della nostra vita.
Il terzo istinto frequente è infine quello di mettersi immediatamente all’opera per distrarsi. Darsi freneticamente a un’attività qualunque che possa in qualche modo placare questo senso angosciante di vuoto interiore e di vertigine esistenziale. Mettere con decisione un colore a caso al posto del bianco che ci spaventa. Tra le attività più gettonate in queste particolari situazioni, c’è sicuramente il giardinaggio, che purtroppo però non ti fa sentire davvero il profumo inebriante degli alberi, il decupage che riempie il tempo, l’aggiustamento di qualcosa che si è rotto da tempo, ma che comunque non si utilizzerà mai più in futuro, la suddivisione precisa in due mucchi distinti (quello da buttare definitivamente, che però puntualmente non si butterà, e quello da tenere con cura) di vestiti e accessori, le pulizie di primavera in una stagione che è del tutto casuale, la cucina a base di ricette salutiste, una collezione bizzarra che si abbandonerà quasi subito dopo averla iniziata, uno sport che è particolarmente di moda. Piccole e brevi ipnosi con lo scopo che è ben preciso di far avvertire in modo attenuato il peso della propria umanità che ci opprime, la quale, solo alcune volte, ha semplicemente bisogno di non essere spiegata in alcun modo.
Imparare l’arte di disorientarsi: la noia come motore di cambiamento
Noi saggiamente abbandoniamo la via facile delle prescrizioni che danno sicurezza e non consigliamo di certo nessuna di queste tre opzioni appena elencate. La noia, purtroppo bistrattata da secoli di letteratura e di pensiero comune, in realtà rappresenta il vero motore primario della curiosità rivoluzionaria che ci spinge a migliorarci. Non è purtroppo possibile costruire alcunché in assenza di quello spazio vuoto che è necessario, così come non è possibile inventare qualcosa di nuovo se non ci sono delle parentesi di salutare noia che ci fanno riflettere. In realtà, l’esperienza del disorientamento è una parte che si rivela cruciale e fondamentale dell’orientamento complessivo che diamo alla nostra esistenza. Nelle scuole di ogni ordine e grado si organizzano in modo sistematico eventi mirati di orientamento, con il preciso scopo di insegnare a tutte le nuove generazioni in formazione ad ambire e volere un solo ed unico futuro possibile. Accanto a tutti questi eventi, però, si dovrebbero quanto prima istituire dei giorni formativi di consapevole disorientamento, che abbiano come obiettivo quello di insegnare concretamente a mancare l’obiettivo primario, senza che per questo si smetta di esercitarsi a lungo per centrarlo in pieno. L’attraversamento in diagonale che spiazza, l’inciampo inatteso che destabilizza, la distorsione della realtà che apre gli occhi, la strada che ci porta inevitabilmente fuori percorso, sono in realtà le lettere preziose di un alfabeto che non può assolutamente fare a meno di nessuna. Imparare con costanza l’arte di sapersi disorientare nel mondo significa costruire con le nostre mani la propria personale bussola, ma anche, di tanto in tanto, avere il coraggio di lasciarla a casa per una volta e di camminare seguendo le briciole di pane lasciate per noi da qualcun altro, o anche seguendo le indicazioni che ci danno gli uccelli nel cielo o un antico intuito che è proprio dei viandanti saggi ormai in pensione. Saper camminare nel mondo significa anche avere la capacità di saper sbagliare strada senza drammi. E non sapere cosa fare di preciso può rivelarsi inaspettatamente il punto di partenza perfetto per la pratica virtuosa del conosci te stesso socratico, che prende forma precisa proprio e soprattutto quando le cose ci appaiono del tutto amorfe e senza senso. Non c’è davvero niente di temibile nella condizione del non sapere cosa fare. Al contrario, sapendo fin da subito e per sempre cosa fare si corre seriamente il rischio di spegnere ogni domanda interiore e di affidarsi ciecamente a quello che finora ci si ricorda in modo superficiale di se stessi.
Non è sempre così necessario cercare insistentemente la bussola che ci guida. Accettiamo, quindi, ogni tanto, di perderla per strada e di proseguire il nostro cammino comunque, sbirciando i segnali che incontriamo oppure anche decidendo di farne a meno per una volta. Accettiamo di scoprirla scheggiata, di riporla cautamente in tasca e di dare ascolto invece al nostro personale fiuto. Accettiamo una volta per tutte di non sapere bene cosa fare di tanto in tanto senza per questo dover avere la necessità compulsiva di rimediare subito. Accettiamo quindi con fiducia la pausa salvifica, l’incertezza costruttiva, la noia stimolante e anche tutti quei segnali che ci appaiono inattesi. Accettiamo in sostanza di non fare niente di rilevante quando non sappiamo con precisione cosa fare e di fare finalmente pace con questo microscopico ma salvifico fallimento che ci rende più umani.
Fonte dell’immagine per l’articolo Cosa fare quando non si sa cosa fare:
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