La figura delle donne avvelenatrici ha sempre esercitato un fascino oscuro. Spesso relegate a un ruolo subalterno, senza possibilità di divorziare o denunciare abusi, alcune donne hanno trovato nel veleno l’unica, silenziosa via di fuga. Perché il veleno era considerato l’arma delle donne? Perché era uno strumento di potere occulto, l'”arma dei deboli”, utilizzato per sovvertire un ordine sociale che non lasciava scampo. Le loro storie, pur essendo cronache di crimini, sono anche lo specchio di una società in cui l’omicidio poteva apparire come l’unica liberazione.
Indice dei contenuti
3 donne avvelenatrici e la loro arma
Avvelenatrice | Arma e metodo |
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Giulia Tofana (XVII sec.) | L’Acqua Tofana, una pozione inodore e insapore a base di arsenico, venduta come cosmetico a mogli disperate. |
Locusta (I sec. d.C.) | Veleni su commissione per l’élite romana, come i funghi avvelenati usati per uccidere l’imperatore Claudio. |
Madame Alexe Popova (XIX-XX sec.) | L’arsenico, facilmente reperibile come topicida, somministrato ai mariti violenti dopo averne conquistato la fiducia. |
1. L’imprenditrice del crimine: Giulia Tofana
Chi era Giulia Tofana? Forse la più nota tra le donne avvelenatrici del Seicento italiano. Per affrancarsi dalla miseria, creò e vendette l'”Acqua Tofana“, una miscela letale di arsenico, piombo e belladonna. La pozione era inodore, insapore e incolore, perfetta per essere somministrata senza destare sospetti. Giulia la vendeva in boccette decorate, spacciandola per un cosmetico. Le sue clienti erano principalmente mogli intrappolate in matrimoni violenti. La sua attività finì quando una cliente pentita la denunciò alla Santa Inquisizione.
2. L’avvelenatrice di Stato: Locusta
Nell’antica Roma, il nome di Locusta era sinonimo di veleno. Divenne la più richiesta esperta di tossicologia della città. La sua cliente più famosa fu Agrippina minore, che la ingaggiò per eliminare l’imperatore Claudio con dei funghi avvelenati. Successivamente, fu il figlio di Agrippina, Nerone, a ricorrere ai suoi servizi per uccidere il fratellastro Britannico. Per i suoi servigi, Nerone le concesse l’impunità. Tuttavia, alla morte dell’imperatore, fu arrestata e giustiziata brutalmente, passando alla storia come una delle prime assassine seriali ufficialmente riconosciute.
3. La “giustiziera” sociale: Madame Alexe Popova
La storia di Madame Alexe Popova, vissuta nella Russia zarista, è particolarmente complessa. Si stima che abbia ucciso circa 300 uomini, ma non per profitto. In un’epoca in cui i diritti delle donne erano inesistenti, divenne un punto di riferimento per le mogli disperate che volevano fuggire da mariti violenti. La sua tecnica era subdola: si presentava come amica di famiglia, conquistava la fiducia del marito e poi lo avvelenava con l’arsenico. Durante il processo, ammise le sue colpe, ma si dichiarò in buona fede, affermando che il suo unico scopo era liberare quelle donne da un’esistenza di abusi.
Oltre il crimine: un fenomeno sociale
Le storie di queste donne avvelenatrici offrono uno spaccato crudo sulla condizione femminile in epoche passate. L’uso del veleno emerge non solo come un metodo di omicidio, ma come un tragico atto di ribellione. Figure come Giulia Tofana o Madame Popova si configurano quasi come operatrici di un’oscura “giustizia sociale”. Analizzare questo fenomeno significa quindi non solo studiare la storia della criminologia, ma anche comprendere le dinamiche di oppressione e resistenza che hanno attraversato i secoli.
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