C’è un periodo che molti attraversano prima dei trent’anni: “crisi del quarto di secolo”, una fase in cui non si è più adolescenti, eppure l’età adulta si osserva ancora da lontano. Gli zoomer di prima generazione conoscono bene questa sensazione, e da tempo ne avvertono il peso.
In un paese come l’Italia, dove raggiungere l’indipendenza economica prima di una certa età è un’impresa rara, ci si ritrova in una sorta di stallo, una pausa tesa tra ciò che si era e ciò che si fatica a diventare.
La crisi dei venticinque anni, però, non si riferisce specificamente alle aspettative sociali legate al quando e al come una persona deve diventare adulta. È qualcosa di più profondo: uno sconvolgimento esistenziale che può colpire all’uscita dall’università, nel bel mezzo di una carriera insoddisfacente, o semplicemente nel momento in cui ci si rende conto di non essere più così giovani e che il tempo, improvvisamente, comincia a correre.
La crisi del quarto di secolo: riconoscimento e complessità
“La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”, osservava Gramsci in una nota scritta dal carcere nel 1930. Senza volerla buttare sul tragico, è però vero che affrontare una crisi esistenziale senza avere gli strumenti per farlo è tutt’altro che semplice.
Psicologi come Jung ed Erickson, avevano già identificato questa fase come una transizione critica dell’ingresso in età adulta, segnata dal conflitto tra intimità e isolamento, e dalla costante ricerca di un equilibrio tra indipendenza e relazioni affettive. Questa, se non trattata, può sfociare in depressione, mancanza di motivazione, ansia o forme di escapismo più o meno consapevoli, che vanno dal doomscrolling compulsivo fino all’uso di droghe e altri svaghi consolatori.
Spesso, questa fase si attiva nel momento in cui si iniziano a fare i conti con la scelta accademica compiuta: un titolo di studio che non garantisce più alcuna sicurezza, in un mondo del lavoro dove le vecchie logiche, il “workaholism” anglosassone o la “gavetta” all’italiana, sono sempre più messe in discussione. Se è vero che le culture, come quella del lavoro, si trasmettono da una generazione all’altra, è altrettanto vero che le nuove generazioni selezionano con cura cosa ereditare e cosa lasciar andare, solo che spesso non sanno con cosa sostituire ciò che si è tolto. Ed è proprio qui che affiorano le crisi più profonde: si avverte il problema, si sperimenta l’angoscia, ma non si hanno ancora gli strumenti o la lucidità per affrontarlo. Una sensazione che può durare a lungo, portando a confusione, smarrimento e, talvolta, una percezione di isolamento, soprattutto quando, guardando i social, ci sembra che tutti gli altri abbiano già trovato la loro strada.
La crisi come rito di passaggio
Durante lo studio dei riti africani, l’antropologo Arnold Van Gennep osservò come, all’interno delle ritualità di molti popoli, esistesse un momento nella vita dei giovani scandito da dei riti di passaggio, veri e propri spartiacque tra l’infanzia e l’età adulta. Questi riti si articolavano in tre fasi: separazione, transizione e reintegrazione.
La crisi del quarto di secolo, può essere letta proprio come una lunga fase di transizione in cui il giovane non avendo ancora un ruolo definito, può diventare qualsiasi cosa. Ma al contempo è considerato instabile e ambiguo, e proprio per questa ragione viene allontanato dal villaggio, nel quale potrà ritornare soltanto a rito di passaggio terminato.
Con l’avvento dell’era moderna e del capitalismo, le religioni e la collettività hanno perso la loro importanza. Eppure, i riti di passaggio canonici, come il matrimonio, il primo impiego stabile o la formazione di una famiglia, fornivano punti di riferimento e facilitavano l’inserimento sociale. Oggi ci troviamo all’estremo opposto: circondati da un’illusione di libertà assoluta e di scelte infinite, spesso osservate negli altri tramite social, facciamo fatica a capire davvero cosa vogliamo. In questo scenario, la crisi del quarto di secolo si alimenta e si prolunga.
Guardare oltre la crisi: nulla nasce da nulla
La crisi dei 25 anni si può quindi definire come una fase fatta di dubbi, smarrimenti e domande. Una finestra di tempo in cui molti cominciano a sentirsi sopraffatti da aspettative disattese, relazioni che traballano e identità ancora in via di definizione. Ma ogni crisi, proprio perché sintomo di una frattura, è anche un’opportunità per trasformarsi e cambiare la propria visione del mondo. E se il mondo fuori confonde, è solo guardando dentro che si può ritrovare un punto fermo.
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