Hijra è uno dei termini più utilizzati nella cultura dell’Asia meridionale, in particolare in India, per designare le persone che si identificano come transgender o transessuali. In altre regioni, i transgender possono essere conosciuti con nomi diversi come Aravani, Aruvani o Jagappa.
Molto spesso, soprattutto in Pakistan, possono essere identificati sia col genere maschile, quello femminile e anche quello neutro. La loro storia è registrata sin dall’antichità e come evidenziato nel noto testo del Kāma Sūtra (IV secolo A.C), in Asia meridionale, molti Hijra vivono in comunità ben strutturate e organizzate, sotto la guida di un guru. Queste comunità hanno mantenuto la loro continuità generazionale accogliendo giovani che sono stati respinti o hanno abbandonato le loro famiglie d’origine a causa della loro identità di genere o orientamento sessuale. Per sopravvivere, molti Hijra sono coinvolti nella prostituzione maschile in quanto sono esclusi da qualsiasi altro tipo di mestiere. Il territorio di appartenenza degli Hijra è difficile da definire, poiché non costituiscono un popolo, una classe sociale o un’etnia. L’identità delle comunità degli Hijra non deriva soltanto dal rifiuto delle categorie maschili e femminili tradizionali, ma anche da una consapevole identificazione con un patrimonio sociale e religioso delle tradizioni indiane.
Scopriamo insieme la storia della comunità degli Hijra che se storicamente erano rispettati come sacerdoti e sacerdotesse della fertilità, nel corso del tempo sono stati sempre più marginalizzati e discriminati.
Hijra è sempre stato il termine utilizzato per definire i transgender nel subcontinente indiano e storicamente erano venerate quasi come divinità, soprattutto durante l’impero Moghul, che governi la maggior parte dell’India durante il XVII secolo. La comunità degli Hijra appartenevano a una casta sacra e ricoprivano ruoli di rilievo sacerdoti, guaritori, ballerini sacri e protettori di feste e celebrazioni. Tuttavia, nonostante la loro importanza sociale, durante il periodo del colonialismo britannico gli Hijra furono oggetto di persecuzione e discriminazione. I valori e le norme importati dalla società britannica dell’epoca, come la legge sulla sodomia del 1861, che puniva gli atti sessuali considerati contro natura, condussero alla stigmatizzazione dell’identità transgender. Dalla colonizzazione britannica dell’India la comunità degli Hijra è stata sempre più marginalizzata e discriminata, da semi divinità diventarono reietti della società da evitare. Solo in Bangladesh si stima ci siano circa 50.000 Hijra, persone che quindi si auto definiscono appartenenti al terzo genere: non sono né uomini né donne e sono relegati a chiedere l’elemosina o addirittura a vendere il proprio corpo per sopravvivere. Nonostante prima nella cultura indiana la comunità degli Hijra fosse vista come una sintesi del potere generativo maschile e femminile, pian piano viene vista come una condizione ibrida negativa perché non convenzionalmente definibile. Questo status ha comportato nel tempo un regime giuridico particolare: la comunità degli Hijra viene gradualmente esclusa dai diritti di proprietà ereditari, viene vietato agli Hijra di partecipare ai culti e riti maschili e, spesso, vengono espulsi dalla propria casta e con un conseguente allontanamento dalla famiglia. Alcuni li considerano addirittura inferiori agli Intoccabili, l’ultima casta indiana. Nonostante ciò, gli Hijra hanno formato una propria casta con regole, beni comuni, e strutture di rappresentanza locale e nazionale.
Nel villaggio di una campagna nella periferia di Dhaka, troviamo una realtà di accettazione e tolleranza per i diritti della comunità degli Hijra, dove unendo le proprie forze e i propri risparmi sono riusciti a costruire una moschea per questa discriminata comunità. Nonostante non ci siano regole chiare nel Corano sul divieto di accesso a determinate categorie di persone, è sottinteso che gli Hijra non siano bene accetti. Proprio per questa motivazione in questo villaggio sperduto vengono finalmente accettati e accolti nella nuova moschea dedicata agli Hijra, dove sono liberi di pregare e professare la loro fede mussulmana; per la loro fede sono convinti dell’uguaglianza tra tutti, ognuno deve imparare e pregare affinché possa raggiungere Jannah, il paradiso. Questa moschea rappresenta per la comunità degli Hijra qualcosa di più di un semplice luogo di culto; è un santuario di accettazione e un rifugio sacro dove possono dialogare con Dio senza timore di giudizio. Qui, la comunità degli Hijra trova finalmente uno spazio per pregare liberamente, senza sentirsi estranei o giudicati per la loro identità di genere. Questo luogo permette loro di sentirsi parte integrante della comunità musulmana, accolti e rispettati.
Con forza e fede, hanno riscritto il loro destino, trasformando l’emarginazione in dignità e la discriminazione in accettazione. Essere consapevoli della loro storia travagliata e condividere il loro momento di vittoria più grande, la possibilità di pregare liberamente e in silenzio, è una presa di coscienza straordinaria. Sono orgogliosi e consapevoli di aver tracciato un nuovo cammino, costruendo un futuro in cui le generazioni future non subiranno più le ingiustizie che loro hanno affrontato, dimostrando che la storia può essere cambiata dalla determinazione di pochi, dal coraggio dei più deboli e dalla resilienza anche dei villaggi più piccoli e remoti.
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