Sport come cambiamento sociale: esempi di successo

sport come cambiamento sociale: esempi di successo

Quando possiamo considerare lo sport come cambiamento sociale?

Nel tempo, la pratica sportiva è diventata uno strumento educativo e, a pensarci, pochi fenomeni si sono radicati nel tessuto sociale come lo sport. Secondo l’antropologo Marcel Mauss, l’attività sportiva è un “fatto sociale totale” poiché influenza diversi aspetti della vita quotidiana: dalla politica all’economia, dall’istruzione ai diritti umani. Lo sport quindi provoca riflessioni e reazioni, poiché in grado di dare esempi di vita e di comportamento: è una creatura in movimento che cambia e si rinnova, dando un forte impatto alle popolazioni. In quest’articolo analizzeremo lo sport come cambiamento sociale tramite fenomeni d’emarginazione collettiva, ovvero degli esempi di successo che ci hanno permesso di aprire gli occhi e a mettere in discussione i nostri vecchi valori.

«Lo sport ha il potere di cambiare il Mondo. Di unire la gente. Parla una lingua che tutti capiscono. Lo sport può creare la speranza laddove prima c’era solo disperazione»

Nelson Mandela

Lo sport e la questione razziale

Quando si parla dello sport come cambiamento sociale radicale, non si può non cominciare da un atleta di colore che ha messo per la prima volta in chiaro quanto il razzismo del tempo fosse imbarazzante e infondato: stiamo parlando di Jesse Owens e della sua piccola rivincita sociale, un velocista e lunghista americano che vinse ben quattro ori nel 1936 alle Olimpiadi “di razza” di Berlino, come definite dallo stesso Hitler.

Quando Owens salì sul podio, Hitler si rifiutò di stringergli la mano e più tardi, il presidente americano Roosevelt decise di non invitare l’atleta alla Casa Bianca proprio per il colore della sua pelle. Per questo, Jesse Owens entra nella storia sportiva e sociale come simbolo dell’antirazzismo nello sport, smontando davanti agli occhi dello stesso Hitler il suo concetto di superiorità ariana. È proprio con lui che lo sport comincia a sfidare i pregiudizi del mondo.

Una trentina d’anni dopo sono i velocisti Tommie Smith e John Carlos a fare la differenza: nel 1968, a Città del Messico, arrivano rispettivamente primo e terzo nei 200 metri e, al momento della proclamazione, protestano apertamente contro il razzismo alzando, guantato in nero, il pugno chiuso. Dopo 53 anni sottoscrivono, assieme ad altri 150 atleti, una lettera di cinque pagine al Comitato olimpico di Tokyo 2021 per chiedere di non sanzionare gli atleti che decidono di manifestare per i propri diritti. Tuttora, è consentito fare rappresentazione politico-sociale prima e dopo la competizione, non durante e né sul podio. Otto anni prima, nel 1960, l’etiope Abebe Bikila vince a piedi nudi la maratona delle Olimpiadi di Roma diventando il primo africano a conquistare l’oro, simbolo di un’Africa in procinto di liberarsi dal colonialismo.

Un caso eclatante di sport come cambiamento sociale è la cestista Maya Moore, la quale lasciò al culmine della sua carriera la Wnba, ovvero l’associazione femminile di basket, per combattere alla scarcerazione di Jonathan Irons, ragazzo di colore condannato a cinquant’anni di reclusione per una presunta rapina a 16 anni. Dopo 26 anni è stato dichiarato innocente.

Non solo Moore, ma anche un atleta e orgoglio nostrano si è apertamente messo dalla parte delle minoranze: stiamo parlando del ciclista Gino Bartali; infatti, nel manubrio e nella sella della sua bicicletta trasportava documenti falsi per consegnarli agli ebrei perseguitati. È riuscito a salvare all’incirca ottocento persone grazie ad una scusa precisa: quando veniva controllato e perquisito chiedeva di non toccare la bicicletta poiché le parti del mezzo erano state calibrate con cura per ottenere la massima velocità. Ancora oggi abbiamo diverse testimonianze del grande cuore di Bartali, in primis quella della famiglia Goldenberg, ai quali offrì rifugio nel proprio scantinato: il ciclista regalò alla famiglia una bicicletta e una foto firmata e dedicata. Nel 2005 ottiene la medaglia d’oro al merito civile e nel 2013 viene riconosciuto come Giusto tra le Nazioni.

Lo sport come cambiamento sociale nella battaglia contro l’omotransfobia

Ancora ai nostri giorni il coming out fa paura: secondo il questionario dell’Institute of Sociology and Gender Studies della German Sport University di Colonia, quasi il 20% dei partecipanti ha rinunciato a praticare sport a causa del proprio orientamento sessuale o identità di genere, soprattutto nel calcio, nella danza, nel nuoto e nella boxe; invece, circa un terzo degli atleti non ha mai rivelato il proprio orientamento, soprattutto in Italia per il 41% e in Ungheria per il 45%. Quest’ultimo fenomeno viene definito “glass closet“, quando ci si protegge per la paura di perdere il proprio lavoro. Inoltre, nel 49% dei casi la discriminazione viene perpetrata dai compagni di squadra tramite atti di bullismo. Lo sport come cambiamento sociale in quest’ambito è fondamentale per permettere agli atleti di vivere la propria sessualità senza angoscia e quindi permettere loro di essere sé stessi senza nascondersi, poiché questi sono spesso obbligati a fare coming out a fine carriera.

Un esempio eclatante è quello del calciatore Esera Tuaolo che, nel 2002, fece coming out e ammise che in molti non gli consigliarono di farlo poiché sarebbe stato odiato dai compagni di squadra e dai fan. Cinque anni dopo, nel 2007, anche il giocatore di basket John Amaechi fece coming out, al termine della propria carriera, proprio quando un ex cestista, Tim Hardaway, dichiarò apertamente che non avrebbe mai voluto un giocatore omosessuale nella propria squadra. Oppure nel 2014, quando il centrocampista tedesco Thomas Hitzlsperger denunciò l’atmosfera omofoba degli spogliatoi degli sport a squadre; nello stesso anno, Barack Obama si complimenta con Jason Collins per essere stato il primo cestista a dichiarare la propria omosessualità. Lo sport come cambiamento sociale comprende anche l’omosessualità femminile, un fenomeno non esente da discriminazioni nonostante sembri, in apparenza, tollerato. Negli anni Ottanta, ad esempio, quando la tennista Martina Navratilova fece coming out perse automaticamente una copiosa quantità di contratti pubblicitari. Purtroppo a Eudy Simelane, capitano della nazionale femminile sudafricana, è andata male: dopo aver rivelato il proprio orientamento viene coinvolta in uno stupro collettivo e “correttivo” per poi essere uccisa a coltellate, nel 2008. Per quanto riguarda il nostro paese, quello di Paola Egonu è sicuramente il caso più famoso: d’origine nigeriana, la pallavolista nasce a Cittadella e nel 2014 ottiene la cittadinanza italiana. Nel 2018, Egonu fa coming out al Corriere della Seraː «A me piacciono le persone, il genere conta poco. Non mi chieda se è un uomo o una donna, non ha importanza. Sono innamorata, felice e spaventata». Nonostante la maggiore consapevolezza dei nostri giorni, queste rivelazioni hanno fatto nuovamente enorme scalpore, facendo uscire la forte omofobia e anche razzismo interiorizzato degli italiani: «Mi hanno chiesto anche se sono italiana. Questa è la mia ultima partita in Nazionale, sono stanca».

Lo sport come cambiamento sociale contro una misoginia ancora prorompente

I Giochi Olimpici moderni risalgono al 1870, ma dovettero passare ben trent’anni prima che le donne potessero farne parte: su novecento atleti uomini, solo ventidue donne gareggiarono e in soli cinque sport, ovvero il tennis, la vela, il croquet, l’equitazione e il golf. Tra queste, è la tennista inglese Charlotte Cooper ad entrare nella storia come la prima donna vincitrice di una medaglia d’oro. Trebisonda “Ondina” Valla è invece la prima donna italiana vincitrice d’una medaglia d’oro, ma per arrivare a ciò ha dovuto superare gli ostacoli impostile dal Vaticano e dal regime fascista: campionessa nella corsa ad ostacoli, viene notata ed invitata nel 1932 ai Giochi di Los Angeles, ma la Chiesa si oppone considerando lo sport non adatto alle donne mentre il regime fascista si giustifica attaccandosi alla figura della donna-madre. Anni dopo, Valla rivelerà: «Avrei dovuto partecipare anche all’Olimpiade precedente, quella del 1932 a Los Angeles. Ma sarei stata l’unica donna della squadra di atletica e così mi dissero che avrei creato dei problemi su una nave piena di uomini». È nel 1936, con le Olimpiadi di Berlino, a ottenere giustizia: è qui che si aggiudica il primo posto nella gara degli 80 metri a ostacoli. Nel 1948, Alice Coachman è stata invece la prima donna afroamericana a vincere la medaglia d’oro nel salto in alto, che era stato imbattuto per otto anni. A causa della forte segregazione razziale del tempo, il sindaco si rifiutò di stringerle la mano e, alla cerimonia in onore della sua vittoria, fu costretta ad uscire da una porta laterale. Nel 1952 però prende una piccola rivincita personale: è la prima afroamericana ad ottenere un contratto pubblicitario, diventando brand ambassador della Coca Cola. Ma è ancora importante parlare dello sport come cambiamento sociale femminista ai nostri giorni? Nel 2018 la velocista Allyson Felix decise di avere un figlio cosciente delle conseguenze che la maternità avrebbe avuto sulla sua carriera: infatti, dopo il parto, la Nike le offrì il 70% in meno del guadagno rispetto a prima. Così, Felix fa una protesta pubblica arrivando ad un concreto cambiamento: nell’agosto 2019 Nike ha ufficialmente garantito la retribuzione di un’atleta incinta. L’atleta, però, non si è fermata: ha lanciato un fondo di copertura per l’assistenza all’infanzia di 200 mila dollari, The Power of She Fund: Child Care Grants, per nove mamme-atlete che hanno gareggiato alle Olimpiadi 2021. Un altro esempio di spiccata consapevolezza avviene in occasione della finale dei mondiali di calcio 2019 in Francia, quando l’intero stadio ha inneggiato alla vittoria della squadra femminile americana gridando e chiedendo l’«Equal pay!», ovvero la parità salariale. Le calciatrici, soprattutto Megan Rapinoe, hanno fatto per anni battaglie per l’ottenimento di una parità retributiva; si sono così unite nella causa contro la US Soccer Federation e nel 2021 hanno ottenuto un contratto identico a quello dei calciatori uomini.

Diffondere la consapevolezza sulla salute mentale e il diritto al riposo

Anche la salute mentale è ancora investita d’intenso pregiudizio e bisogna servirsi dello sport come cambiamento sociale per far comprendere che il benessere psicologico sia importante quanto quello fisico: nello sport, infatti, ci si aspetta di essere pronti, invincibili e improntati alla vittoria, portando spesso gli atleti ad un pesante sfinimento mentale. L’esempio più ammirevole dei nostri giorni è quello della ginnasta Simone Biles, ritirata dalle Olimpiadi di Tokyo 2021 dopo il quinto giorno di gare, dichiarando di avere dei “twisties“, un fenomeno che disconnette il corpo dalla mente. Biles è tuttora esempio di vulnerabilità, un sentimento non ammesso facilmente nello sport agonistico: ha dimostrato così di essere una talentuosa ginnasta senza l’unico scopo di vincere medaglie. Anche la tennista nippo-americana Naomi Osaka ha dato priorità alla propria salute mentale facendo un passo indietro al Roland Garros 2021. Dopo la sua decisione, Osaka è stata etichettata come arrogante e viziata dal commentatore Piers Morgan e dall’editorialista sportivo del Telegraph Oliver Brown, definendo il suo atteggiamento “da diva”. Ma Osaka ha rotto in realtà un tabù importante nel mondo dello sport e del lavoro, dove la pressione è asfissiante e dove ci si aspetta di ottenere risultati esemplari.

Diritto allo sport per i disabili

L’attività sportiva dev’essere quindi strumento d’inclusione e integrazione per ogni minoranza, comprese le persone con disabilità. Il CIP, o Comitato Italiano Paralimpico, è l’ente di riferimento per lo sport praticato dai disabili: questo ha il compito di promuovere e disciplinare le attività sportive, sostenere l’agonismo, favorire la diffusione di condizioni d’uguaglianza e pari opportunità, così da garantire a tutti il diritto allo sport. Proprio per questo, nel 1960, nascono i Giochi paralimpici. Lodevole è il caso di Bebe Vio la quale, il 20 novembre 2008, a soli 11 anni, viene colpita da una meningite che la costringe all’amputazione degli arti; circa un anno dopo l’insorgenza della malattia, riprende l’attività di schermitrice grazie a una particolare protesi progettata per sostenere il fioretto. Alle Paralimpiadi di Londra, nel 2012, il pilota Alex Zanardi, rimasto senza gambe dopo un grave incidente, vince l’oro nella cronometro di paraciclismo e nelle prove su strada.

Sport come cambiamento sociale ma anche come spunto di riflessione e ispirazione: i due campioni nostrani sono esempio di passione, sacrificio e impegno alla consapevolezza, entrambi non si sono fermati a seguito d’un evento traumatico, anzi, hanno combattuto fino all’ultimo facendo il triplo della fatica per aggiudicarsi non solo un posto sul podio, ma anche un posto nella nostra storia. Loro incarnano nel mondo dello sport il simbolo della speranza e della voglia di combattere, come anche Oscar Pistorius: nel 2011 l’ex velocista sudafricano vince l’argento alla staffetta 4×400 ai Mondiali di Daegu diventando il primo paralimpionico a vincere in una competizione per normodotati.


Fonte: Wikipedia

Menzione d’onore: Magic Johnson e la sua sieropositività

Dulcis in fundo, non possiamo tralasciare il forte impatto scaturito dalle dichiarazioni del 1991 del cestista Magic Johnson: dopo aver rivelato la propria sieropositività, crea la Magic Johnson Foundation con il fine di finanziare programmi per la lotta contro la diffusione dell’AIDS e contro l’ignoranza in materia. Con gli anni, Johnson ha aumentato i propri obiettivi, dedicandosi a svariate problematiche sociali: ad esempio, promuove politiche che possano facilitare l’accesso alle cure mediche, ha garantito oltre 38.000 test gratuiti per il controllo della sieropositività in 16 città statunitensi e così via. Nel 1992 viene invitato dall’allora presidente degli Stati Uniti George H. W. Bush per sensibilizzare su una sindrome ancora poco conosciuta all’epoca e considerata pericolosa esclusivamente per gli omosessuali e i tossicodipendenti.


Fonte: Wikipedia

Conclusione sullo sport come cambiamento sociale: ne abbiamo ancora bisogno

L’articolo ha ripreso momenti, emozioni e controversie brevi ma intensi, che ci hanno permesso di conoscere approfonditamente la nostra società e noi stessi. Questi esempi di successo dimostrano quanto bisogni combattere per i propri diritti fondamentali e per la tutela delle minoranze: c’è ancora tanta strada da fare, per questo abbiamo bisogno di rappresentazione ed eccezioni nello sport, poiché è proprio la posizione d’un personaggio conosciuto ad aiutare i più emarginati.

Fonte immagine in evidenza: Wikipedia

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