Tyrese Haliburton: la rivincita degli outsiders

Tyrese Haliburton

Tyrese Haliburton e gli Indana Pacers, un gruppo di dimenticati e rinnegati approdati ai vertici della NBA per dire (finalmente) la loro

Con un sorriso da smargiasso, un’andatura del tutto fuori dall’ordinario e un tiro che, più che profumare di pulito, odora piuttosto di popcorn appena fatti, Tyrese Haliburton è quanto di più in controtendenza con gli standard della NBA odierna. Eppure, allo stesso tempo, è perfettamente in parte con i canoni del capobranco di una squadra in lotta per il titolo. Antidivo e divo al tempo stesso, perennemente “nel chill” eppure costantemente con la bava alla bocca: Tyrese è un assassino che ti sorride mentre ti pugnala al cuore.

Macchina del tempo

Ripercorriamo un attimo l’ancor breve carriera del numero 0 dei Pacers prima di spingerci verso l’attualità dei playoff NBA. Haliburton viene scelto dai Kings al draft del 2020. Partendo in sordina, inizia a far vedere di che pasta è fatto, affiancando Fox in un backcourt da stropicciarsi gli occhi, specie per chi, come i tifosi Kings, di talento ne aveva visto davvero poco nell’ultimo ventennio. Haliburton appare il completamento ideale per Fox: più playmaker del numero 5, molto più adatto, in quanto a caratteristiche fisiche, a schermare il compagno di reparto dal punto di vista difensivo. Eppure, già dal secondo anno di convivenza tra i due, iniziano a venir fuori i primi dubbi sul duo targato Kings. “Bisogna scegliere”, così si decise ai piani alti della franchigia di Sacramento. E, come spesso accade a quelle latitudini, la scelta si rivelò sbagliata, almeno secondo il pensiero dell’epoca. I Kings cedono Tyrese Haliburton agli Indiana Pacers in cambio di Domantas Sabonis e Malcolm Brogdon.

Tyrese Haliburton ai Pacers

La percezione di quello scambio cambia a seconda dello scorrere delle stagioni, fino a stabilizzarsi, alla fine, come la più classica delle “win-win situation“. Ma è davvero così? A giudicare dallo stato attuale in cui versano i Kings, rimasti fuori dai playoff e orfani di Fox (arrivato all’ombra dell’Alamo), con il solo Sabonis e il duo DeRozan-LaVine (già risultato fallimentare ai Bulls) a roster, la risposta potrebbe protendere per il no. Dal canto suo, Haliburton, molto legato com’era alla città di Sacramento e alla franchigia dei Kings (strano ma vero), si lega al dito il fatto di essere stato scaricato in quel modo tanto cinico e crudele. Ad Indiana, diventa il playmaker per eccellenza, ma soprattutto diventa uomo.  Un Magic Johnson  con meno lustrini e con i piedi ben ancorati al suolo. Il perfetto direttore d’orchestra a cui affidare le sorti della tua squadra. Sotto la guida di un vecchio marpione come coach Carlisle, Indiana cresce, migliora, costruisce pezzo per pezzo quello che diventerà il roster per poter competere nell’Est del futuro. Andando in controtendenza con le attuali tendenze della lega, i Pacers costruiscono il proprio roster alla vecchia maniera, prediligendo le caratteristiche dei giocatori e l’alchimia di squadra rispetto alla mera somma dei talenti (una tendenza, quest’ultima, che si è dimostrata a più riprese controproducente).

Una squadra di rinnegati

Myles Turner, centro duttile in attacco e in difesa, chiacchierato ogni anno come possibile partente ma rimasto sempre ai Pacers ad allargare il campo e a mettere tutto sé stesso in difesa. T.J. McConnell, playmaker di riserva sottodimensionato e dallo stile squisitamente anni ’80, vera e propria dinamo dalla panchina, in grado di smistare assist e di avere un’efficienza dal campo del tutto illogica per uno della sua stazza. Obi Toppin, “scarto” dei Knicks, arrivato ai Pacers come semplice “freak atletico”, è diventato essenzialmente un titolare aggiunto, in grado di coniugare irriverenza atletica a un modo di stare in campo e nella vita da “chi se ne frega”. Pascal Siakam, una sorta di leviatano dei “role player”, in grado di dare alla squadra tutto ciò di cui ha bisogno. Difesa? Eccoti la stoppata o la rubata decisiva. Attacco? Eccoti 40 punti serviti sull’unghia. Vero e proprio ago della bilancia dei Pacers, ha trasformato la squadra da semplice Cenerentola  bellissima da vedere, destinata a rientrare allo scoccare della mezzanote a vera e propria contender al titolo. Aaron Nesmith, passato dall’essere un oggetto misterioso ai Boston Celtics a diventare, in casacca gialla, una sorta di Kawhi Leonard in miniatura, decisivo in ambedue i lati del campo. E ancora Mathurin, Nembhard, Sheppard, Bryant, fino ad arrivare all’ultimo della rotazione. È raro, anzi, rarissimo, vedere tanti giocatori in grado di incidere in una squadra che gioca ad altissimo livello nei playoff NBA, dove le rotazioni in genere non superano i 7-8 giocatori, ancora più raro se i giocatori in questione sono per la maggior parte gli scarti mal smistati di altre squadre.

Tyrese Haliburton: il direttore d’orchestra

Indiana è una squadra vera, verissima, e Haliburton, lontano dall’essere il primo violino, ne è piuttosto il direttore d’orchestra: eleva le prestazioni degli altri, dà gli impulsi a livello emotivo e ci mette la faccia, sempre e comunque. Recentemente, secondo un sondaggio anonimo tra i giocatori, Haliburton era stato votato come il giocatore più sopravvalutato della lega. Ovviamente, come spesso accade in questi casi, risulta quanto mai doveroso riesumare la frase di Rudy Tomjanovich: “Mai sottovalutare il cuore di un campione”. E Tyrese, che se ne dica, campione lo è in tutto e per tutto. Dopo una stagione regolare non certo idilliaca, anzi, nella quale non è stato convocato neanche per la gara delle stelle (per quanto conti oggi), il giocatore ha creduto fosse necessario, proprio durante la pausa per l’All-Star Game, rivolgersi a un professionista per lavorare sulla propria salute mentale e sul proprio approccio alla competizione. Non è un caso se dalla seconda parte della stagione, Haliburton non solo sia tornato ad essere il playmaker immaginifico della stagione scorsa, ma addirittura il vero leader emotivo degli uomini da Indianapolis.

La grande rivalsa

Lo scorso anno, lui e i Pacers erano stati etichettati come la squadra dei “fortunelli” per aver incontrato avversarie falcidiate dagli infortuni. Pur essendo arrivati alle finali di Conference, si temeva per loro il più classico degli effetti “Atlanta”: raggiungere le finali per un anno, in modo fortuito, e poi ricadere nel baratro. Eppure, quest’anno, non solo sono tornati alle finali di Conference, ma le hanno addirittura superate, raggiungendo OKC in finale, battendo i Kinicks di Brunson e compagni.

A fine partita(giocata questa notte), Haliburton non è stato premiato con MVP delle finali di Conference (ingiustamente a mio modo di vedere), eppure, nonostante tutto, anche questo potrebbe tornargli utile, come un’ennesima motivazione, se mai ce ne fosse bisogno.  Per di più, Il fatto che un suo compagno sia stato premiato al suo posto, potrebbe ben dare l’idea di come questo ragazzo elevi chi gli sta attorno. E Siakam, d’altronde, non ha certo demeritato, anzi. Rimane la sua gara 4 da 32 punti, 15 assist, 12 rimbalzi e 4 rubate con 0 palle perse; rimane quella (quasi) tripla della vittoria, voluta, cercata, quasi come se sapesse come sarebbe andata; rimane il “choke” al Garden, come Reggie Miller; e rimane quella difesa tanto arcigna quanto insperata per un attaccante come lui. E rimane, sopra ogni altra cosa, il suo essere un “underdog“, nonostante tutto. Perché Tyrese, così come tutti i componenti di questi Pacers, è un rinnegato, uno che è stato ritenuto non adatto, non capace di dire la propria. Haliburton è un numero 0, di numero e di fatto, outsider sempre e comunque, e questi Pacers sono stati plasmati a sua immagine e somiglianza.

Fonte immagine in evidenza: Wikimedia Commons

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Autore/possessore: Chensiyuan

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