Finale di partita di Beckett al Teatro Bellini | Recensione

Finale di partita

Finale di partita, uno dei testi teatrali più emblematici di Samuel Beckett, è in scena al Teatro Bellini di Napoli, dal 13 al 23 novembre, con la regia di Gabriele Russo.

Rappresentato per la prima volta nel 1957, Finale di partita, insieme ad Aspettando Godot, è un pilastro del teatro dell’assurdo. Siamo in un ambiente claustrofobico in cui il tempo sembra essersi fermato, sospeso tra gesti e parole, pause e silenzi. Al centro della scena Hamm, un uomo cieco e paralizzato, costretto su una sedia a rotelle. Alle sue spalle Clov, il suo servitore zoppo che è impossibilitato a sedersi. 

Finale di partita
Michele di Mauro nelle vesti di Hamm (ph. Flavia Tartaglia)

In Finale di partita, come spesso accade nel teatro di Beckett, lo spazio diventa metafora ed esternazione dello stato interiore. In una totale impossibilità di rapporti, di senso e dell’umanità stessa, la scenografia angustiante altro non è che una proiezione della condizione dei personaggi che sono cristallizzati, bloccati nei loro ruoli. Hamm e Clov, interpretati magistralmente da Michele di Mauro e Giuseppe Sartori, sono reciprocamente dipendenti l’uno dall’altro, calcano la dialettica hegeliana servo-padrone, senza, tuttavia, alcuna evoluzione. Nutrono desideri di fuga, sempre rimandati e fagocitati dall’immobilismo che permea le loro esistenze, vite che hanno smesso di credere, incapaci di vedere un “fuori”. E incapaci anche di guardare al futuro: i genitori di Hamm (bravissimi Alessio Piazza e Anna Rita Vitolo) che appaiono in scena, in una vasca da bagno, sono la concretizzazione di una memoria che si sbriciola.

Finale di partita: mentre tutto si sgretola, la parola cerca di trattenere il senso

Uno spettacolo fatto di parole che sono come pendoli che oscillano tra necessità e inutilità e dietro questo movimento celano il nulla, o meglio la pesante consapevolezza e, forse, rassegnazione, che tutto è destinato a rimanere così com’è. I personaggi usano un linguaggio asciutto, a volte umoristico, a volte comico e la circolarità dei loro discorsi lenti, ridondanti, è spietata: tutto sembra perduto, tutto è perduto. Tuttavia, anche quando la fine sembra interiorizzata e non lascia spazio ad alcuna speranza, vitale e lucida rimane la forza e la capacità di interrogare ciò che resta.   

Un’opera spietata e molto attuale

Come si legge nelle note di regia, l’intento è quello di liberare Beckett dalla cornice dell’Assurdo e del “dopo la fine del mondo” per restituirlo a una realtà che ci appartiene. L’assurdo non è un genere: è una condizione quotidiana. Vive nella ripetizione dei gesti, nelle abitudini che ci tengono in vita, nella paura di cambiare posizione, di uscire, di restare soli. Finale di partita diventa così una radiografia del nostro tempo: una famiglia chiusa in una routine che si ripete, incapace di salvarsi e di smettere di provarci. Non un’allegoria filosofica, ma una storia d’amore e di sopravvivenza. Il dolore, la dipendenza, la paura, l’ironia: tutto si muove dentro un presente che non passa mai. La partita è ancora la stessa, ma il finale non è più un concetto astratto. È la resa quotidiana che ciascuno di noi compie di fronte all’altro, nel tentativo – disperato e tenerissimo – di restare vivi.

FINALE DI PARTITA
di Samuel Beckett
traduzione Carlo Fruttero

regia Gabriele Russo

con Michele Di Mauro, Giuseppe Sartori, Alessio Piazza, Anna Rita Vitolo

scene Roberto Crea
costumi Enzo Pirozzi
disegno luci Roberto Crea Giuseppe Di Lorenzo
musiche e progetto sonoro Antonio Della Ragione

produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Biondo Palermo

Fonte immagini: Ufficio Stampa – ph. Flavia Tartaglia

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A proposito di Rossella Capuano

Amante della lettura, scrittura e di tutto ciò che ha a che fare con le parole, è laureata in Filologia, letterature e civiltà del mondo antico. Insegna materie letterarie. Nel tempo libero si diletta assecondando le sue passioni: fotografia, musica, cinema, teatro, viaggio. Con la valigia sempre pronta, si definisce “un occhio attento” con cui osserva criticamente la realtà che la circonda.

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