I poeti selvaggi di Roberto Bolaño al Piccolo Bellini | Recensione

I Poeti selvaggi di Roberto Bolaño al Teatro Bellini | Recensione

Dal 21 al 26 ottobre va in scena al Piccolo Bellini I poeti selvaggi di Roberto Bolaño. Primo capitolo. per la regia di Daniele Russo e Igor Esposito, su musiche dal vivo di Massimo Cordovani. Liberamente ispirato al romanzo dello scrittore cileno I detective selvaggi (1998), il primo capitolo della “conferenza-spettacolo” in tre parti restituisce allo spettatore un universo abitato da poeti erranti, che entrano ed escono di scena come voci di un coro dissonante. In questo viaggio attraverso la parola poetica che si fa corpo, carne e sangue, la scena diventa luogo di indagine sulla vita dei poeti latino americani dimenticati, figure la cui esistenza si intreccia indissolubilmente con la storia politica e civile del proprio paese. 

«Vivere come un poeta significa vivere come un rivoluzionario»

Daniele Russo e Igor Esposito

Sulla sinistra una disordinata scrivania coperta di libri – tra cui svettano alcuni liquori – è illuminata dalla luce calda della piccola lampada rossa, che crea l’atmosfera tipica di un salotto letterario.  A presiederlo le due sculture di Carlo De Vita che raffigurano le teste di due poeti poste in primo piano a catturare immediatamente o sguardo dello spettatore. Al lato opposto del palco Massimo Cordovani costruisce lo spazio di un’epoca, attraverso i paesaggi sonori che passano attraverso i testi delle canzoni di Victor Hara, suonate alla chitarra, ma anche attraverso il suono percussivo del basso e le vibrazioni elettroniche, che trasportano chi osserva in una dimensione temporale altra: l’America Latina degli anni Settanta.

La storia ha inizio con la fine di un sogno – quello socialista e democratico nato nel 1970 con l’elezione a Presidente del Cile di Salvador Allende. La voce di Igor Esposito guida lo spettatore in un viaggio multisensoriale che si muove in due direzioni: da un lato alla scoperta della vita di Bolano, filtrata attraverso le vicende di Arturo Belano – sua proiezione letteraria – e l’amicizia con il poeta messicano Mario Santiago Papasquiaro – che diventa invece Ulises Lima; dall’altro l’atto politico alla base del tentativo di ricomporre frammenti di testimonianze, opere perdute e ritrovate di intellettuali e figure letterarie espulse dal canone e dalla storia, per rivendicare la crudeltà di un forzato oblio. 

La voce dei poeti Infrarealisti

Daniele Russo dà voce ai poeti selvaggi

Sul fondale si alternano a immagini potenti come la fotografia del palazzo de La Moneda prima e dopo l’esplosione provocata dai militari guidati da Pinochet, i volti dei poeti che fecero parte del movimento Infrarealista negli anni Settanta. Fondato da Roberto Bolaño e Mario Santiago Papasquiaro, il gruppo riunì molti letterati e intellettuali dell’epoca, tra cui Darìo Galicia tragicamente vissuto come un vagabondo, in seguito a due operazioni chirurgiche per un aneurisma cerebrale, che nella finzione letteraria di Roberto Bolaño diventa Ernesto San Epifanio.

È Daniele Russo a dar voce ai poeti che fecero parte del movimento, restituendo attraverso il corpo e la parola, la furia visionaria e disperata di una generazione che aveva dichiarato guerra all’establishment e al canone letterario rappresentato dal poeta asservito al potere, Octavio Paz. Una generazione che rivendicava il diritto all’anarchia creativa, al disordine e soprattutto all’urgenza del vivere liberamente, proclamando di voler «far saltare le cervella alla cultura ufficiale».

Una generazione che non si rassegna alle ultime parole pronunciate da Allende a Radio Magallanes prima di spararsi un colpo in testa, ma le rilancia con rabbia vestendole di speranza nuova.  Una speranza che trova il suo fondamento nella stessa parola ‘rivoluzione’, senza tuttavia esaurirsi in essa, ma aprendosi invece a un orizzonte più ampio e guidato dalla poesia. 

Le ultime parole in scena sono quelle di Manifesto, brano simbolo della resistenza di Victor Hara

«Yo no canto por cantar, ni por tener buena voz, canto porque la guitarra tiene sentido y razón.»

Ma la subito la poesia si spezza ed il teatro si fa eco di una memoria che non può essere in alcun modo rimossa. I due registi-attori travestiti da soldati dell’esercito cileno lanciano in sacchi neri le teste dei poeti rievocando così le torture inferte al popolo cileno, messo a tacere, torturato e ucciso, come il cantautore divenuto simbolo di un’epoca. Eppure la voce di Massimo Cordovani, ora bendato e senza il suo strumento, attraversa il buio, perché se è vero che c’è sempre un principio che attende, paziente, dietro ogni fine, è qui che nasce la voce degli infrarealistas: una voce che non smette di indagare, sfidando il potere, per resistere ancora una volta ai soprusi degli oppressori.

Fonte immagini: Ufficio stampa

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