Linee tra i bordi: lo spettacolo al Teatro Marconi

Linee, tra i bordi

Dal 13 al 16 febbraio, presso il Teatro Marconi di Roma, è andato in scena “Linee, tra i bordi” lo spettacolo scritto dall’autrice Arianna Cozzi e diretto da Felice Della Corte. Sul palco un cast composto da: Anania Amoroso, Alessio Antelmi, Alice Corti, Kevin Di Sole, Francesca Faccini, Riccardo Musto, che mette in luce , con una sensibilità commovente, un tema di estrema rilevanza: l’inutilità etica e umana della guerra.

Arianna Cozzi, giovane e talentuosa sceneggiatrice, è l’autrice di Linee, tra i bordi, uno spettacolo teatrale che invita il pubblico a una riflessione profonda sul tema della guerra intesa in senso ampio: non solo quella combattuta con i fucili, ma anche quella interiore, quella battaglia silenziosa che scoppia quando, per la prima volta, mettiamo in discussione noi stessi. Presentando la sua opera, Cozzi cita Cartesio e spiega: “Il pensiero nasce dal dubbio; dubitare, metterci in discussione, è ciò che ci rende umani”. E conclude con un esortazione: “Spero di lasciarvi con qualche dubbio in più al termine della rappresentazione”. Un invito a non fermarsi alle certezze, ma ad esplorare le sfumature più profonde delle cose.

Linee, tra i bordi

Linee, tra i bordi: la trama

Quando una guerra inizia, l’umanità perde. Gli uomini si tramutano in bestie, intrappolati in un vortice fatto di ordini, assenso passivo e violenza. L’etica assume forme nuove, macchiata da ideali patriottici e nazionalisti. Il senso di colpa e il dubbio, prima o poi, si fanno strada nelle menti. C’è chi li affronta subito, chi li scopre più tardi e chi, purtroppo, forse non li incontrerà mai.

È in questa realtà che prende vita la storia di Jacob Smiter (interpretato da Anania Amoroso), soldato-modello, intriso di retorica patriottica, costretto a confrontarsi con il crollo dei propri ideali. Il suo percorso non sarà una linea retta: dalla cecità ideologica passerà alla consapevolezza che ogni vittoria nasconde, in fondo, una sconfitta morale. Un uomo che combatte non solo il nemico, ma anche se stesso, in un conflitto interiore che lo consuma.

Sulle note del Valzer n. 2 di Shostakovich  la scena si apre. Ci ritroviamo catapultati in un microcosmo di luci e ombre che si alternano sui volti dei protagonisti. L’ambientazione è quella di un accampamento militare privo di coordinate geografiche, un luogo indefinito che, grazie alla potenza dell’astrazione, diventa specchio di una guerra universale.

Sin dal primo dialogo a quattro voci, emergono con forza le personalità antitetiche di Jacob e Mellor, interpretato da Kevin Di Sole, un soldato pentito del suo arrualamento. Mellor non è un semplice antagonista: è la voce della coscienza, colui che incarna le domande che Jacob non osa porsi. Con le sue parole, Mellor tenta di scardinare il concetto di onore di Jacob, mettendo in dubbio il valore di un soldato. Sono le idee, non i fucili, a fare la guerra, e la vera vittoria, suggerisce Mellor, sta nel non combattere affatto.

Centrali nell’opera la coppia simbolica traditore/bambina che agisce come benzina su un fuoco già pronto a divampare. Jacob, trovandosi di fronte a un traditore che aveva scelto di passare informazioni sensibili al fronte opposto, inizia a dubitare del concetto di “giusto e sbagliato”, di “vittima e carnefice”. Shila, invece, sarà una testimone ancora “più scomoda” che incarnerà il paradosso di tutte le guerre: l’innocente che osserva e subisce senza partecipare.  Smiter ammettendo di parlare volentieri con lei, arriverà a farsi assegnare turni di guardia appositamente per incontrarla. Ed è proprio in uno di questi loro dialoghi che Shila gli spiegherà, con l’innocenza e la semplicità tipica dei bambini, che i confini sono costruzioni umane, che la diversità è un’invenzione dell’uomo, che non esistono buoni o cattivi e che nessuna terra appartiene davvero a una fazione piuttosto che a un’altra. “Hai mentito”, ripete Shila più volte durante il loro confronto, riuscendo a portare in luce il pensiero più recondito nella mente del soldato che, colpito nel profondo, confesserà alla fine: “Non voglio vedere mio figlio, ho paura dei suoi occhi; ho paura di vedere nei suoi occhi i tuoi”.

Una volta tornato a casa, Jacob appare, infatti, visibilmente distante dal figlio. In una discussione con sua moglie scopriamo la verità: Shila vive solo nella mente di Smiter. Durante una ronda il soldato l’aveva uccisa per errore e da quel giorno la rivede ogni notte.

Felice Della Corte: la regia

Felice Della Corte, direttore del Teatro Marconi, firma la regia di Linee, tra i bordi.  Della Corte dà vita ad un’atmosfera che è insieme intima, avvolgente e carica di tensione. La scenografia è essenziale, ma dinamica e prende vita sotto gli occhi del pubblico: gli attori in scena spostano e ricompongono dei pannelli mobili, creando di volta in volta le diverse ambientazioni: l’accampamento militare, il confine, la casa di Jacob. Gli spazi sono immersi in una palette cromatica ridotta, creata dalle luci, usate con maestria per accentuare i momenti cruciali dei dialoghi: il rosso per le scene più intense e crude, il blu per quelle malinconiche e sofferte. Fra l’oscurità, spiccano i toni tenui degli abiti di Shila e del suo orsacchiotto, che sembrano stiano lì a simboleggiare una purezza che resiste in un mondo ormai disumanizzato dalla guerra.

Linee, tra i bordi: il messaggio

“Linee, tra i bordi” è un viaggio nell’animo umano, un invito a guardare oltre le certezze imposte. Lo spettacolo ci ricorda che ogni conflitto, esteriore o interiore, lascia cicatrici profonde.  Attraverso ogni scena, siamo spinti a dubitare, a metterci in discussione, a riconoscere che i confini – siano essi ideologici o territoriali – sono costruzioni dell’uomo. La guerra non ha vincitori, ma solo perdenti. La vera vittoria sta nel rifiutare la violenza.  

“Il testo nasce da un generale sentimento di impotenza che provo ogni volta che vedo, leggo o sento parlare di catastrofi umanitarie assolutamente artificiali, totalmente ingiustificate e nettamente evitabili. La guerra è quella cosa che priva l’essere umano della sua umanità e il fatto che sia ciò che collega ogni uomo di ogni tempo mi sconvolge. Con questo testo mi rivolgo personalmente a tutti coloro che sentono di non potere fare nulla. Potete parlare, potete gridare e far sentire la vostra voce”.  L’autrice Arianna Cozzi

Foto di Monica Irma Ricci fornite da ufficio stampa Teatro Marconi

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