L’Oreste. Quando i morti uccidono i vivi, al teatro Sannazaro la follia mostrata attraverso il chiaroscuro di un’esperienza particolare
Al teatro Sannazaro in scena “L’Oreste. Quando i morti uccidono i vivi” da venerdì 21 a domenica 23 gennaio (venerdì e sabato ore 21.00 – domenica ore 18.00), uno spettacolo di Francesco Niccolini per la regia di Giuseppe Marini con Claudio Casadio. Uno spettacolo illustrato da Andrea Bruno prodotto dall’Accademia Perduta Romagna Teatri – Centro di produzione Teatrale – Società per attori in collaborazione con Lucca Comics&Games.
Al teatro Sannazaro in scena i ricordi rarefatti della follia: la comunicazione diretta tra spazio scenico reale e l’estensione psichica delle immagini a matita
Di Oreste è rimasto solo un nome. Un nome che non identifica nessuna appartenenza, spogliato perfino da un cognome e da qualsiasi significato che possa rimandare alla dignità di un luogo o alla sicurezza tutta umana di un calore familiare e sociale. Oreste è un matto e la sua casa è la camera di un manicomio. Nelle quattro pareti grigie alla luce fioca dello scrittoio intorno alla solitudine di una brandina singola il moto di fantasmi che vivono al di fuori della scena interrompe di continuo il soliloquio. Oreste parla con i dottori, interloquisce con gli infermieri. Oreste esprime desideri e ogni sera è in colloquio diretto con i fantasmi dei suoi ricordi, con basi lunari e spaziali dove con ansia spera al più presto di raggiungere suo padre.
Oreste, infatti, non ha nulla di quello che in società sono i requisiti per essere definito normale e sano. Non è nient’altro che un mucchio di ricordi confusi e trasfigurati e nulla più per essere definito persona: è un invisibile senza individualità e senza amici veri, ma solo volti con cui si intrattiene in lunghe conversazioni. Sua sorella defunta che dice di essere la sua ragazza e un ragazzo sprezzante e antipatico sono gli unici attori nella scena del suo delirio, fissati in eterno nella staticità temporale della malattia e del trauma.
Claudio Casadio nei panni di Oreste è stato magistralmente in grado di portare il carico di una storia tragica di vita, finita ancora prima di iniziare, cioè fin dalla gioventù e che lungo lo spettacolo appare con gradualità attraverso ricordi lancinanti. Storia di un omicidio, maltrattamento, esclusione, abbandono e infine reclusione. I ricordi della sua vita di appaiono baluginanti attraverso i disegni proiettati sullo sfondo di Andrea Bruno che illustra quello che è lo spazio psichico, gli anfratti fin troppo scottanti della sua memoria.
Lo spazio dei ricordi appare come un’estensione di un limitato spazio scenico e reale, che è solo il guscio della storia un personaggio infantile, dimenticato da Dio, morto già prima di vivere, ma che ci pone dinanzi un mondo diverso che in quanto mondo, acquista la sua dignità.
Attraverso la matita di Andrea Bruno il mondo statico e malato della psiche si anima, diviene movimentato e acquisisce spazio e tempo pur se attraverso l’immaginario creato dalla graphic novel: mette alla prova il lettore stimolando un immaginario che va oltre il palcoscenico, ma allo stesso tempo ci insegna. In fin dei conti tutti abbiamo un desiderio, tutti viviamo ai margini tra il razionale e l’irrazionale, tutti dobbiamo fare i conti con la follia, tutti abbiamo un sogno e tutti dovremmo in qualche modo auspicare che Oreste riesca sul serio a raggiungere la luna.