NEST teatro: Uccelli di passo | Recensione

NEST teatro: Uccelli di passo | Recensione

Recensione dello spettacolo Uccelli di passo, in scena il 6 ottobre al teatro NEST.

Il 6 ottobre va in scena, al teatro NEST, Uccelli di passo, un progetto del collettivo BEstand. Come un uccello migratorio, lo spettacolo transita rapidamente sul cielo di Napoli, per poi volare dritto a Roma, al Teatro India, due giorni dopo. Passa una sola sera, ma per lasciare il segno. La messinscena sembra avere l’andatura disinvolta e veloce, il tono giocoso e triste di un giovane ragazzino. Si ha la sensazione di ascoltare il monologo interiore del suo cuore.

La drammaturgia — che prende le mosse dal Peter Pan di J. M Barrie — è di Dario Postiglione, il quale si occupa di dare forma inedita ed organica al lavoro di autofiction degli attori in scena: Luigi Bignone, Martina Carpino, Francesca Fedeli, Giampiero de Concilio. Giuseppe Maria Martino cura, invece, la regia di questa preziosa opera creativa.

Uccelli di passo al teatro NEST: con un passo falso o si precipita nell’abisso oppure si può approdare magicamente su un’isola

Al NEST, nella sala nata sulle rovine di una scuola abbandonata, viene riprodotta da Simona Batticore la scena, questa volta, di un albergo in stato di degrado. Qui, grazie a un itinerario immaginario guidato dagli interpreti, sorge un isolotto sospeso sull’acqua, un luogo che non c’è.

A iniziarci al volo compaiono dapprima due donne-bambine, i cui corpi si contorcono sotto le luci a intermittenza (di Sebastiano Cautiero), dando l’idea di volatili con ali malmesse. Il loro cinguettio è incerto e somiglia più a uno strepitio, a un gemito. Così pare già di intuire nella rappresentazione il germe di un risvolto inaspettato, la previsione di un incubo indesiderato. Si crea un’atmosfera tra luci e ombre, ci si trova sin da subito immersi in un flusso di comicità irresistibile, che rievoca l’innocenza dei giochi d’infanzia, ma il mostro cattivo si nasconde dietro la porta.

L’irrefrenabile curiosità e il fascino per la degradazione e il fatiscente, spinge i quattro adolescenti a irrompere in un hotel desolato, la cui vista si apre, però, sul mare aperto, che – con un po’ di fantasia – può assumere le sembianze di un tappeto volante.

Questi mostriciattoli, avventati e irresponsabili, hanno caratteristiche proprie di una generazione non troppo lontana da chi si esibisce e, occhio e croce, pure da una buona parte del pubblico, direttamente coinvolto ad assistere in maniera tutt’altro che passiva. Gli spettatori del NEST — che riescono ad accogliere l’intenzione profonda di Uccelli di passo — compiono un viaggio introspettivo e a ritroso nel tempo, dissotterrando le proprie insicurezze e, perché no, ricordando, con il sorriso, anche le “bravate” dell’età dell’incoscienza.

I protagonisti — mettendo insieme desideri, visioni filmiche, e ambizioni — simulano situazioni concrete ed eventi imprevisti del percorso di crescita: battesimi, matrimoni, funerali, processi e indagini. Riproducono un vero e proprio microcosmo di gioco, prendendo ispirazione dalle figure-idolo tipiche della gioventù: pirati sbronzi, detective fumatori ed estremamente virili, sindaci e avvocati incompetenti e inutilmente polemici. Vengono derisi i principi della civiltà con le sue contraddizioni. Si ironizza anche sulle strutture di potere, gerarchiche e tradizionali, chiuse nel loro dispotismo intransigente, fatte di leggi e regole prestabilite, ignare di ciò che succede al di fuori, indifferenti ai sogni e ai disagi adolescenziali.

Tra i piani di una residenza inospitale, dopo essersi storditi con birre e sigarette, i quattro vanno alla ricerca di oggetti di cui servirsi per i loro divertimenti: un telo di plastica si trasforma in un elegante abito da sposa, una vasca da bagno sgarrupata diviene il loro grembo-rifugio nel quale accovacciarsi, sentirsi al sicuro e, intimamente, confessarsi. Così a momenti di svago e ricreazione, se ne alternano altri seri e di sincera commozione. Si delineano i tratti specifici del singolo: ne è un caso la quattordicenne che si sente inadeguata e fuori luogo, come uno scoglio messo lì per caso, profondamente bisognosa d’amore. Vi è poi lo “sfigato”, che non ha mai imparato a chiudere le canne e non sa perdere tempo e rilassarsi, ma sta imparando. C’è chi ha timore di essere abbandonato dalle persone care, vederle allontanarsi e andare per la loro strada, ma, a sua volta, desidera scomparire. Non manca, infine, il Peter Pan, che si sente attaccato dagli adulti, come fossero vichinghi spregiudicati e insensibili, al punto da rimanere morbosamente legato al paese dei balocchi.

I vari tasselli si incastrano alla perfezione, l’esito tragico è già premeditato sin da principio. Il bimbo-fagotto, che i compagni si divertono a lanciarsi fino a farlo cadere a terra e morire, diviene, d’improvviso, un bambino vero, che precipita di sotto. Il più intraprendente, apparente leader della comitiva, nonché, probabilmente, il più fragile, perde la vita piombando giù dalla finestra. Di qui prende piede tutta la potenza drammatica dell’opera, l’atto osceno e distruttivo ha la sua funzione pratica: riportare i tre sopravvissuti nel mondo reale. Solo a questo punto ci è concesso conoscere la vera sequenza degli avvenimenti, osservare le difficoltà tangibili e la delusione, i lati oscuri del piacere della scoperta.

I tempi si sovrappongono e non esiste né passato né futuro, solo delle ore indeterminate, segnate su un orologio rotto. L’unica misurazione affidabile è il sentire: l’eccitazione aumenta per la possibilità di amplificare, con scenette e costumi, lo spazio dell’immaginazione. Subentra il panico di chi non vorrebbe mai fare esperienza di quelle “cose da grandi”, come l’unione fisica di due corpi, con annesse reazioni ansiogene. Prende, poi, il sopravvento la tristezza di chi ha visto davanti a sé una porzione di esistenza infrangersi per sempre: la giovinezza.

Il frastuono della disco music, per un po’, si sostituisce al tormentoso silenzio e alla paura del vuoto lasciato dalla perdita, ma prima o poi il dj è costretto a staccare, la serata finisce, e i fantasmi ritornano. L’ombra di Peter Pan sbuca da dietro le pareti e guasta il clima di festa. Il vestito di paillettes non dà alle ragazze i superpoteri, e il corpo resta esile e tremante come una foglia.

Anche i giovani titanici diventano vecchi e puntano il loro dito — a mo’ di uncino —, pronti a giudicare le debolezze infantili. Il dramma esplode e si ripete, come un lamento ininterrotto e angosciante, con il quale bisogna imparare a convivere. Forse davvero ci conviene prendere esempio dagli adolescenti, e recitare ogni giorno il loro mantra: «se mi rompo, mi riaggiusto».

Questi intrepidi sognatori danno vita alle fantasie più strampalate, cosicché, a un tratto, diventa difficile distinguere la verità dalla finzione. Cosa accade e cosa no? Chi è destinato a rimanere in piedi e chi cade? Darsi delle risposte è irrilevante, perché portano con sé l’amarezza, dovuta proprio allo stato di incertezza, nel quale ci si trova ancora e soprattutto da adulti. Ritornano quei dubbi irrisolti che ci pesavano da ragazzi. In alcuni, particolari casi, più potenti e strazianti di prima.

Nella vita vera, non si può giocare eternamente a nascondino, presto o tardi, tocca uscire allo scoperto. Doveroso è riconoscere che il Collettivo BEstand, con Uccelli di passo, ha messo a nudo le proprie e altrui paure più recondite, le ha convertite — con melanconica ironia— in bellezza, e ha fatto tana libera tutti.

Immagine: Ufficio stampa NEST

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Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l’Università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna.

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