Andy Warhol a Napoli, il genio della pop-art alla Basilica della Pietrasanta

Andy Warhol a Napoli, il genio della pop-art alla Basilica della Pietrasanta

Andy Warhol è finalmente giunto a Napoli. Anzi, sarebbe meglio dire “ritorna” dopo 40 anni nel capoluogo partenopeo con una mostra a lui dedicata, dal semplice titolo di Andy Warhol.

Ospitata all’interno della Basilica della Pietrasanta, la mostra dedicata all’artista cardine della Pop Art sarà accessibile dal 25 settembre di quest’anno al 23 febbraio 2020. Una mostra organizzata da Arthemisia, azienda organizzatrice di eventi e di mostre d’arte che nella stessa Basilica ha ospitato la precedente retrospettiva di grande successo su Marc Chagall.

Andy Warhol a Napoli, la conferenza stampa

Il giorno 25 settembre si è tenuta una conferenza aperta alla stampa e agli articolisti, i quali hanno anche potuto visitare in anteprima la mostra. La conferenza è stata introdotta dal presidente dell’Associazione Pietrasanta Raffaele Iovine, il quale ha ricordato come gli sforzi di cittadini privati abbiano potuto permettere ad un luogo come la Basilica della Pietrasanta di divenire un luogo votato all’arte. Alla stessa maniera l’assessore Nino Daniele ha definito questo intervento come un «miracolo civico a Napoli» che rende il capoluogo partenopeo la città con la miglior offerta museale in tutta Italia.

L’intervento del rettore monsignor Vincenzo de Gregorio ha sottolineato l’importanza del restauro della Basilica di Pietrasanta, ricordando come nei lunghi anni di degrado fosse divenuta un luogo di attività illegali quali l’uso del pavimento come deposito di materiale da costruzione o che fosse stata addirittura usata come un’improvvisata discoteca dai ragazzi.

Monsignor de Gregorio ha poi voluto sottolineare il motivo che lo ha spinto ad accettare di ospitare le opere di un artista come Andy Warhol, che ha rappresentato soggetti lontano dall’essere sacri come Mao Tse-Tung o Lenin, in mezzo ad altari, crocifissi e affreschi religiosi.

«La giustificazione sta nel fatto che l’opera di Warhol si rilegge nell’ambito dei “secoli brevi”. Warhol racconta e interroga il suo secolo, il XX, che è stato un insieme di rivolgimenti che hanno capovolto, più volte, il pianeta, in tutte le sue componenti». La mostra di Andy Warhol non fa quindi che prolungare quell’abitudine degli artisti di ogni tempo di esprimere la propria arte all’interno di luoghi sacri.

Iole Siena, presidente di Arthemisia, sente forte il legame con la città di Napoli che descrive come un «cuore pulsante di vita» e di come il modello “motore di mostre d’arte” della Basilica di Pietrasanta abbia attirato l’attenzione della stampa estera, conferma del successo di questa formula che si è già visto con la precedente mostra dedicata a Marc Chagall.

La signora Siena ha poi voluto focalizzare l’attenzione sul fatto che i proventi della mostra andranno a favore di iniziative comeLa prevenzione è il nostro capolavoro, iniziativa nata in collaborazione con Komen Italia e dedicata al mese internazionale per la prevenzione dei tumori al seno.

Andy Warhol. La mostra a Napoli

La mostra Andy Warhol ospita un catalogo di 200 opere tra disegni, polaroid, acetati e molto altro, tutte provenienti da collezioni private e in particolare da quella di Eugenio Falcioni.

Sette sono le sezioni in cui la mostra è articolata. La prima che incontriamo è quella delle Icone, che richiama ai soggetti più famosi ritratti su carta sterigrafica da Andy Warhol: le celebri lattine di zuppa Campbell (Campbell’s soup), che l’artista di origini cecoslovacche espose nella sua prima mostra tenutati alla Ferus Gallery di Los Angeles il 9 luglio 1962.

Una mostra che la critica dell’epoca asfaltò senza troppi complimenti, ma che in realtà cambiò per sempre il concetto di arte. Warhol infatti strappa alla quotidianità tutti quei simboli provenienti dal mondo della pubblicità, che vengono nobilitate come opere d’arte e diventato icone popolari o “pop” (da cui il termine Pop Art).

L’arte è divenuta quindi merce, moltiplicata e resa uguale come le già citate lattine di zuppa. Ma diventano icone popolari anche i personaggi del cinema, una delle industrie più produttive degli Stati Uniti, come Liz Taylor, Marilyn Monroe e anche politici come Jackie Kennedy e Mao Tse-Tung, per il cui ritratto Warhol si ispirò all’incontro tra il presidente della Repubblica popolare cinese e Richard Nixon nel 1972.

Anche a tutte queste icone Andy Warhol riserva lo stesso trattamento: li svuota dei loro tratti somatici e li rende figure stilizzate e soggette alle sovrapposizione di colore serigrafico.

La seconda sezione, quella dei Ritratti, testimonia l’interesse dell’artista per il mondo della celebrità. Un mondo, come ha spiegato nel suo intervento il curatore della mostra Matteo Belenghi, da cui era ossessionato e che lo porta a fondare nel 1969 la rivista Interview dedicata proprio a quel mondo.

Tra gli anni ’60 e gli anni ’70 continua a produrre ritratti di personalità del mondo dello star system, le quali visitano la sua factory per avere un ritratto fatto da lui e spesso ricavato da una polaroid. Lo stesso artista avrà anche modo di omaggiare nei suoi ritratti artisti come Edvard Munch, Man Ray e gli amici Keith Haring e Jean Michel Basquiat.

Interessanti in questa sezione sono anche i ritratti denominati Cowboys e Indians, dove troviamo immortalati soggetti come Toro Seduto e Teddy Roosevelt. La sezione dedicata ai Disegni raccoglie tutti i disegni fatti da Andy Warhol (in particolare gemme e diamanti) nel periodo che va dal 1949, anno in cui inizia a lavorare come illustratore di scarpe per la rivista Glamour ai primi anni ’60, periodo di avvicinamento al New Dada che lo porterà poi a realizzare i primi disegni della Campbell’s soup e ad adoperare la tecnica della serigrafia.

Ricca di interesse è anche la quarta sezione, denominata Warhol e l’Italia. Il rapporto tra l’artista americano con la nostra penisola fu molto stretto e in particolare con la città di Napoli. Qui nell’aprile del 1980 si tenne presso la Galleria Lucio Amelio una mostra che presentò un confronto tra la pop art americana e l’arte concettuale tedesca di Jospeh Beyus.

Fu poi lo stesso Lucio Amelio ad organizzare un incontro tra i due artisti e grazie a ciò Napoli divenne un importante palcoscenico artistico internazionale che trovò la sua massima espressione nell’evento Terrae Motus, nato in seguito al terremoto in Irpina nel 1980 e per il quale Andy Warhol realizza la serigrafia Fate Presto conservata al Palazzo Reale di Caserta.

Tra le opere del periodo italiano presenti alla mostra c’è la serie Veuvius, presentata al museo di Capodimonte nel 1985 e che presenta l’eruzione del vulcano impreziosita di colori pop-espressionistici e antinaturalistici e Last Supper, reinterpretazione dell’affresco dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci. Da segnalare anche la serie di ritratti dedicati a Sant’Appolonia e un ritratto della Gioconda eseguito con l’inchiostro su carta serigrafica.

Warhol e il Brand è il nome della quinta sezione della mostra che testimonia il passaggio di Andy Warhol da semplice individuo della società di massa a sfruttatore di quella stessa società. Si trovano omaggi a prodotti come il profumo Chanel o anche le lattine di Coca-Cola, emblema del concetto di “nobilitazione del quotidiano” tipico della Pop Art.

La penultima sezione è invece dedicata alla Musica. Come si sa Andy Warhol fu anche disegnatore di copertine per album musicali ed è sua la celebre banana che campeggia sulla copertina di The Velvet Underground & Nico del 1965. Copertina su cui Warhol applica un piccolo “scherzo”: sulla superficie della banana è infatti presente uno sticker giallo e nero che, se rimosso, mostra il frutto con un colore roseo che ricorda un simbolo fallico.

Tra i vari musicisti di cui fu amico Andy Warhol si può citare Mick Jagger, leader dei Rolling Stones che fu soggetto di ritratti serigrafici e anche di alcune polaroid scattate nel 1977 dove i membri della band si danno dei morsi che saranno di ispirazione per la cover di Love You Live del 1977. Ma celebre è anche la sequenza di polaroid che Andy Warhol scatta sette anni prima e che confluiranno nella cover di Sticky Fingers, raffiguranti il davanti e il retro di un jeans.

L’ultima sezione è riservata alle Polaroid e agli Acetati. La fotografia risulta essere una compagna necessaria per Andy Warhol, la quale costituiva la base per i suoi celebri ritratti. Dai tanti scatti, come scrive anche Pat Hackett, «sceglieva un’immagine, decideva dove tagliarla, e poi la truccava per far apparire il soggetto il più attraente possibile».

Nelle polaroid troviamo i volti di tanti personaggi noti del cinema,dello sport e della moda come Sylvester Stallone, Arnold Schwarzenegger, Giorgio Armani, Valentino, ma anche artisti quali Roy Lichtenstein e Francesco Clemente. Sono presenti nella sezione anche le foto della serie Ladies and Gentleman, ritraenti una drag queen del locale notturno The Golden Grape.

È  presente anche il celeberrimo autoritratto (uno dei tanti) del 1986 in cui Andy Warhol si ritrae con la parrucca di color argento su uno sfondo buio. Un ritratto che lo ha reso un’icona contemporanea.

Il profano che incontra il sacro

Arthemisia ancora una volta fa da mezzo di diffusione dell’arte scegliendo una personalità eccentrica e seminale come quella di Andy Warhol. Un’artista la cui opera ha predetto la diffusione e anche invadenza dei mass media e della pubblicità nel mondo contemporaneo e che oggi si sono evoluti nelle forme dei social network.

Ma la mostra è interessante anche per un motivo fondamentale a cui già si è accennato: la sua installazione all’interno di un luogo religioso come la Basilica di Pietrasanta. La presenza dei volti di Marylin, Mao e Mick Jagger o anche le lattine di Coca-Cola e le luci al neon in mezzo all’austera e inviolabile gravità di affreschi religiosi, crocifissi, altari e tele con immagini di figure del cristianesimo contribuiscono a creare un’atmosfera surreale e straniante, dove il profano incontra il sacro.

Un concetto che ben si spiega nella già accennata idea della Basilica come luogo di promozione dell’arte e che di certo non mancherà di far storcere il naso ai credenti più intransigenti e ai critici d’arte puri e conservatori, convinti che l’arte sia un’insieme di opere e idee insolubilmente legate a certe fasi della storia e che l’atemporalità scaturita da una loro contaminazione sia da considerare una blasfemia bella e buona.

Però in fin dei conti ciò riassume il concetto che stava alla base della Pop Art e dell’opera di Andy Warhol: conferire nobiltà artistica a ciò che arte non è, immortalandolo per sempre e trasformandolo, neanche a dirlo, in un’icona. Inutile dire che l’operazione è promossa a pieni voti.

A proposito di Ciro Gianluigi Barbato

Classe 1991, diploma di liceo classico, laurea triennale in lettere moderne e magistrale in filologia moderna. Ha scritto per "Il Ritaglio" e "La Cooltura" e da cinque anni scrive per "Eroica". Ama la letteratura, il cinema, l'arte, la musica, il teatro, i fumetti e le serie tv in ogni loro forma, accademica e nerd/pop. Si dice che preferisca dire ciò che pensa con la scrittura in luogo della voce, ma non si hanno prove a riguardo.

Vedi tutti gli articoli di Ciro Gianluigi Barbato

Commenta