In Baby Girl, Nicole Kidman esplora il sottile confine tra convenzionalità e trasgressione nell’eros, in un gioco intrigante di potere. Un film di Halina Reijn che indaga il desiderio femminile sospeso tra dominazione e vulnerabilità.
Il cinema è senza dubbio uno degli strumenti più potenti per mettere in scena e affrontare l’indicibile, i tabù e le contraddizioni umane. Nicole Kidman, con la sua straordinaria versatilità, è una delle interpreti più abili nel dare vita a personaggi che incarnano la tensione tra la normalità – nei ruoli di madre, moglie, casalinga – e il lato oscuro, nevrotico, persino perverso della psiche. In Baby Girl, uscito il 30 gennaio nelle sale italiane, Kidman torna a esplorare questo affascinante ossimoro, regalandoci una performance che sfiora, ancora una volta, i confini tra l’ordinario e il controverso.
“Abbiamo tutti una piccola scatola nera piena di fantasie proibite che potremmo non confessare mai a nessuno. Sono affascinata dalla dualità della natura umana e questo film è un tentativo di far luce, senza giudicare, sulle forze contrapposte che compongono le nostre personalità. Per me il femminismo è la libertà di studiare la vulnerabilità, l’amore, la vergogna, la rabbia e la bestia interiore di una donna.” È con queste parole che la regista olandese Halina Reijn svela al Festival del Cinema di Venezia l’anima del suo film, un’opera che tenta di addentrarsi nelle perversioni più recondite dell’animo umano; una fotografia del dualismo sottomissione – dominazione e della riscoperta del desiderio femminile.
Un bicchiere di latte per la sua “Baby Girl”: l’intreccio di potere tra Romy e Samuel
Il film ci catapulta immediatamente nella vita di Romy, interpretata da Nicole Kidman, una dirigente di successo in una società tecnologica che si occupa di robot. La troviamo nel bel mezzo di un rapporto intimo con il marito, Jacob, regista teatrale di fama, affidato alla recitazione magnetica di Antonio Banderas. Ma la scena, lontana dall’essere sentimentale o idealizzata, è un ritratto crudo e diretto di una relazione coniugale in crisi. Una crisi, però, che sembra riguardare solamente una delle due parti.
Romy, infatti, inscena un orgasmo durante il rapporto, piacere che lei stessa ammetterà di non aver mai realmente provato in 19 anni di matrimonio. Al termine dell’amplesso, si allontana in silenzio dalla camera da letto, lasciando Jacob solo. Si rifugia davanti ad uno schermo, concedendosi un momento di piacere solitario in una sequenza che mescola freddezza e vulnerabilità. Guardando un video pornografico, lascia intendere allo spettatore un suo primo “kink“: quello della dominazione e dell’umiliazione.
Insomma, un’apertura che non indulge in romanticismi, ma scava subito nelle dinamiche di una relazione complessa, svelando tensioni e desideri repressi.
Samuel (Harris Dickinson) entra in scena con un’aura di controllo e autorità che cattura immediatamente l’attenzione di Romy. Ancora prima di presentarsi ufficialmente, la donna lo incontra per strada mentre è intento a dominare un cane preso da un impeto di aggressività. Dickinson con il semplice tono della sua voce riesce a far calmare la bestia e accarezzandola le ripete: “Good girl“. Quel gesto, così semplice ma carico di significato, ipnotizza la donna e lascia intuire qualcosa di più profondo: una dinamica di potere che Romy, forse inconsciamente, desidera sperimentare.
In ufficio, Samuel è il nuovo stagista e si rivela subito una figura spiazzante. Durante una presentazione, lancia alla CEO un commento provocatorio e, successivamente, in un incontro ravvicinato con la donna, le fa capire, senza mezzi termini, che ciò che lei cerca non è il controllo, ma perderlo per essere controllata; alla domanda di Romy: “Porta sempre con sé dei biscotti?”, il giovane risponde: “Ne vuole uno?”. Un’affermazione audace, ai limiti della sfrontatezza, ma che rivela già le sfumature della dinamica sessuale che i due consolideranno più tardi.
Il loro rapporto prende forma in modo graduale, attraverso gesti simbolici e piccoli atti di sottomissione. Durante un aperitivo di lavoro, Samuel le fa recapitare al tavolo un bicchiere di latte. Romy guardandolo negli occhi lo beve tutto d’un fiato, e lui, passandole accanto, le sussurra: “Brava bambina”. Quel momento segna l’inizio di un gioco di dominazione che accende il suo desiderio femminile e che diventerà sempre più esplicito: Samuel in una camera d’hotel la fa inginocchiare, le fa leccare il latte da un piattino come un animale domestico, la premia con una caramella come se fosse un cane obbediente, ma si lascia andare anche a momenti di vulnerabilità chiedendole di abbracciarlo dopo un rapporto intimo.
La presenza di Harris Dickinson nel film scuote la protagonista in modo sottile ma decisivo. Il suo personaggio, sfuggente e ambiguo, ha qualcosa di fatale, come quegli amanti che ti travolgono senza mai rivelarsi completamente: è difficile capire se sia solo un folle, un “dominatore” (“master “nel gergo BDSM) o un bambino nel corpo di un giovane uomo in cerca di affetto materno mai ricevuto; d’altronde è proprio questa personalità sfumata a renderlo così intrigante. Ciò che è chiaro, tuttavia, è come la sua figura costringa Romy a confrontarsi con il lato oscuro del suo piacere, spingendola ad agire con una sincerità disarmante, sebbene grottesca, e a mettere a nudo una parte di sé che, fino a quel momento, aveva preferito ignorare e che inizia persino a credere essere legata alla sua infanzia passata in comunità e sette.
In questo gioco che esplora il dualismo dominazione – sottomissione, il desiderio femminile è descritto in modo sempre meno convenzionale: l’incontro tra i protagonisti è diretto e dirompente.
Il fascino ambiguo di un “thriller erotico” che non convince del tutto
Eppure, nonostante varie scene impattanti visivamente, il rapporto tra i protagonisti sembra rimanere sospeso in una zona grigia, senza mai raggiungere una vera evoluzione. È qui che il film divide il pubblico: prometteva di essere un thriller erotico, ma finisce per deludere su entrambi i fronti. Le fantasie di Romy sono abbozzate, quasi sfocate, e le sequenze che dovrebbero esplorare il suo rapporto con Samuel – fughe sul tetto dell’ufficio, incontri in stanze d’albergo – faticano a prendere vita.
Il momento più significativo, forse, resta proprio quello iniziale, quando Samuel placa il cane feroce con un biscottino. Quel gesto, apparentemente banale, sembra risvegliare in Romy un desiderio primordiale: quello di essere dominata, di cedere il controllo. Eppure, il film non riesce a far pulsare in modo continuativo questo nucleo tematico che avrebbe dovuto essere il cuore del film. La sottomissione di Romy – l’ossessione per le caramelline ricevute in premio, il latte bevuto a carponi da una ciotola, la “safeword” che prende il nome del marito, l’orgasmo raggiunto attraverso una masturbazione che implica il non vedere il volto del partner – restano brevi momenti significativi di una fantasia sessuale che ci viene fugacemente mostrata, ma che non decolla mai davvero.
L’erotismo tra i due, dunque, è sfumato in scene di sesso fatte vedere rapidamente, e il BDSM, che sembrava dover essere un tema centrale, viene rappresentato in modo non del tutto aderente alla realtà. La Kidman non si cala mai completamente nel vero ruolo di “slave”, mostrandosi a tratti imbarazzata dalle richieste di Samuel e talvolta non totalmente in grado di sottostarvi. Samuel, nel ruolo di “master”, è anch’esso ambiguo, in alcuni momenti dominatore, in altri un amante amorevole, forse anche troppo.
Rejin e il desiderio femminile: quando l’eros sfugge alle regole
Al di là delle critiche, il film ha il merito di affrontare un tema complesso e spesso trascurato: l’eros da un punto di vista tutto femminile e il gender gap nel modo in cui si ricerca e si dà piacere. Esiste una sorta di barriera comunicativa, un divario profondo tra i desideri maschili e femminili che appare difficile da superare. Anche quando, sul finale, Jacob (Banderas) cerca di replicare a letto ciò che la donna gli chiede per compiacerla, questo non le basta per raggiungere un vero orgasmo. Il piacere di lei resta ancorato ad una fantasia, ad un’altra scena, ad una forma di sottomissione diversa: quella che Samuel le aveva mostrato, autentica, istintiva e condivisa, lontana dal solo compiacimento di un suo kink. Qualcosa che partiva da entrambi, non un gesto di mera accondiscendenza.
Con gli ultimi minuti del film, la Reijn trasmette un messaggio chiaro: il vero piacere nasce nella mente. Il rapporto tra slave e master portato in scena dai due protagonisti dimostra che, senza un’intesa psicologica, senza uno scambio di potere consensuale e senza quella condivisione di istinti e inclinazioni profondamente allineati tra i partner, non può esistere una connessione del tutto autentica. La regista sottolinea come non sempre siamo disposti a dichiarare sinceramente ciò che vogliamo al partner, anche quando siamo con la persona che amiamo. Il sesso e l’amore, pur intrecciati, non sono mai una diretta conseguenza l’uno dell’altro: il primo non garantisce il secondo, e viceversa. A volte, non siamo nemmeno sicuri di cosa desideriamo davvero e perché; altre, fingiamo di saperlo o di averlo, quando in realtà speriamo in qualcosa di completamente diverso. E non deve essere sempre tutto romantico, convenzionale o logico. Ciò che eccita la protagonista, ad esempio, non è necessariamente universale, ma neanche ciò che non la incuriosisce lo è; il piacere è qualcosa di intimo, soggettivo, e sfugge a qualsiasi categorizzazione rigida. Insomma, potremmo tutte voler essere delle “baby girl”, oppure l’esatto contrario.
Romy resta un mistero, il suo piacere inespresso, qualcosa che neanche il film ha intenzione di svelare del tutto. Desiderio femminile e dominazione, così, si intrecciano in una dinamica complessa, mai completamente decifrabile. E forse, è proprio questo il punto di forza di Baby Girl: lasciare lo spettatore con più domande che risposte, in un gioco di tensioni mai davvero risolte.
Foto presa dal trailer del film.