Il momento storico estremamente complesso nel quale ci troviamo rende necessaria qualsiasi azione volta alla denuncia sociale e, in tal senso, l’arte tutta ha una responsabilità precisa: quella di diffondere una consapevolezza sempre maggiore nella collettività, soprattutto in quella apparentemente disinteressata a ciò che dovrebbe toccare chiunque sia immischiato nell’umanità. L’impatto del messaggio è proporzionale alla sua potenza figurativa e, per questa ragione, l’arte figurativa, e nello specifico il cinema, rivestono un ruolo chiave nella diffusione di contenuti a sfondo sociale. La nostra recensione de Gli Ingannati è soltanto un microscopico contributo che desideriamo apportare nella diffusione di un messaggio che non può restare inespresso.
Trama de Gli Ingannati
Gli Ingannati (in arabo المخدوعون) è un film prodotto in Siria nel 1972, diretto dal regista egiziano Tewfik Saleh e tratto dal romanzo Uomini sotto il Sole di Ghassan Kanafani, scrittore, attivista e giornalista palestinese, il quale si è impegnato fortemente per la causa del suo popolo fino al momento della sua morte, avvenuta nel 1972, a seguito di un attentato israeliano nel quale fu assassinata anche sua nipote di sedici anni.
Il film è ambientato nell’epoca successiva alla Nakba, precisamente dieci anni dopo. Si racconta la vicenda di tre uomini palestinesi che, pur appartenendo a tre generazioni differenti, sono stati accomunati dallo stesso destino crudele, fatto di sofferenza, disperazione e abbandono. Un giovane, un uomo adulto e un anziano, residenti nei campi profughi iracheni si incontrano per caso a Bassora, e decidono di intraprendere un viaggio verso le terre del Kuwait, nella speranza ultima di conoscere un avvenire migliore.
Analisi e Recensione de Gli Ingannati
Le scene iniziali del film si susseguono attraverso i ricordi del protagonista anziano, Abu Qais, ormai macchiati dall’eterna nostalgia di una terra amata che non tornerà più. La pellicola è caratterizzata dal tema dell’inganno, inteso come la promessa di una vita migliore che non è mai giunta alla realizzazione. Il protagonista adulto, Assad, subisce il primo inganno quando paga metà dei suoi averi ad un usurpatore per essere trasportato clandestinamente dal deserto fino al Kuwait, ma scopre che nessuno sarebbe venuto a prenderlo.
Successivamente, Assad trova in Abdul Khaizuram un’altra occasione di partire, ma a patto di rimediare altre due persone. Khaizuram è una figura fondamentale nello sviluppo della vicenda, in quanto ultima possibilità di attraversare i confini del Kuwait grazie al suo permesso di lavoro. È un ex guerrigliere palestinese (fedayyin in arabo), catturato e castrato nel 1948, che lavora come camionista per un uomo facoltoso e occasionalmente si guadagna da vivere trasportando clandestinamente i profughi palestinesi al confine. L’uomo ricorda il tragico evento della castrazione quando uno dei protagonisti gli domanda se sia sposato e, con il volto intriso di sudore e lacrime, ripensa alle parole del chirurgo: “È meglio perdere la tua mascolinità, che perdere la tua vita”.
Il cosiddetto “viaggio della speranza” si svolge a bordo del camion, dove gli uomini sono costretti a nascondersi all’interno di una cisterna rovente, luogo insostenibile per più di quindici minuti. Giunti al confine, il camionista viene fermato per mostrare il suo permesso di lavoro ma, a causa di un’insignificante lungaggine, è obbligato a trattenersi nella vicina caserma, tra le risate degli ufficiali di polizia che lo trattengono a lungo per schernirlo, ignari della presenza dei tre uomini. Abdul fa ritorno al camion dopo più di quindici minuti e, quando riapre la cisterna, trova i corpi dei tre uomini ormai esanimi, morti per qualche minuto maledetto, a un passo dalla nuova terra. Il camionista adagia i tre corpi ancora caldi e seminudi sul terreno, in un silenzio assordante: è l’ultimo inganno, l’atto di indifferenza riservato ai tre sventurati, metafora dell’inganno forse peggiore della storia contemporanea, quello subito dall’intera comunità palestinese dal 1948 fino a oggi.
Il film si propone come una pellicola di impegno sociale e storico, che senza fronzoli mostra l’orrore che ha contaminato la storia di una popolazione oppressa, perseguitata, sottoposta a un genocidio che oggi continua di fronte allo sguardo indifferente del mondo. La recensione de Gli Ingannati è dunque anche un invito alla visione, resa possibile su RaiPlay, in forma completamente gratuita.
La Nakba
Con il termine Nakba (dall’arabo “disastro, catastrofe”) si fa riferimento alla prima diaspora palestinese avvenuta nel 1948, a seguito della prima guerra arabo-israeliana. Essa introdusse una delle pagine più oscure della storia contemporanea, i cui effetti si prolungano fino ai giorni nostri. La prima guerra civile si scatenò alla fine del mandato britannico in Palestina e vide coinvolti Egitto, Siria, Iraq, Transgiordania e Libano, che inviarono le loro truppe nella parte cisgiordana. La prima diaspora condusse alla migrazione di oltre 700.000 palestinesi, costretti ad abbandonare le loro abitazioni per rifugiarsi negli stati più vicini, tra cui la nota Striscia di Gaza, la Giordania, la Cisgiordania, il Libano e la Siria. Si tratta di uno degli esodi più tragici della storia del popolo palestinese, in cui intere generazioni furono costrette a rinunciare improvvisamente alla loro vita e alla loro terra per cercare un rifugio. Il problema dei rifugiati è certamente una conseguenza del primo esodo, a cui non è mai stata introdotta una risoluzione che fosse realmente in grado di offrire delle condizioni di vita decenti: la soluzione temporanea fu la costruzione dei cosiddetti campi-profughi, dei luoghi adibiti all’accoglienza, i quali, tuttavia, furono dal principio segnati dal degrado, condizioni igieniche precarie e un tenore di vita pressoché inumano.
Questo articolo, dedicato all’analisi e alla recensione de Gli Ingannati, ha l’ambizione di rendere noto un film che può essere considerato un capolavoro nel cinema egiziano, ma che resta ancora oggi poco conosciuto dagli schermi occidentali.
Fonte immagine: RayPlay.