Pedro Almodóvar e l’estetica queer nell’era post-identitaria

Pedro Almodóvar: il desiderio, la voce, il caos queer di una Spagna liberata

L’estetica queer in Pedro Almodóvar introduce una visione del cinema in cui la forma si fa carne, il melodramma si tinge di kitsch e il desiderio assume i tratti di una voce fuori campo che non arriva mai a compiersi. Dal postfranchismo alla scena queer globale, il regista spagnolo non ha mai smesso di interrogare la costruzione dell’identità e il ruolo dell’oggetto come protesi dell’amato.

Pedro Almodóvar e l’estetica queer come grammatica sovversiva del reale

Ben prima che la teoria entrasse nelle università europee, l’estetica queer in Pedro Almodóvar ne incarnava già l’estetica e l’etica sullo schermo. Non come manifesto programmatico, ma come esperienza incarnata. Il queer, come definito da B. Ruby Rich negli anni Novanta, è un posizionamento esistenziale e artistico: fluido, dissidente, performativo.

Non è un’etichetta, ma una lente.  Almodóvar l’ha adottata ben prima che il termine si codificasse, facendone una grammatica poetica con cui raccontare una soggettività che si fa e si disfa nei margini.

Il suo cinema rifiuta ogni opposizione binaria: maschile/femminile, alto/basso, comico/drammatico. Esattamente come la soggettività queer, anche il suo linguaggio filmico si costruisce nella relazione con l’altro, contaminandosi, esplodendo, rinascendo.

Movida e metamorfosi: la nascita di un autore

Figlio spirituale della movida madrileña, Pedro Almodóvar è il regista della rinascita spagnola. Quando la dittatura franchista cade nel 1975, la Spagna entra in una frenesia di libertà. E Almodóvar ne è il cantore più audace. I suoi primi film – Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón in testa – sono anarchici, sovversivi, girati con quattro soldi ma con un’energia pulsante. Il desiderio esplode in ogni direzione, il sesso è gioia, la trasgressione è una forma di rivendicazione esistenziale.

Se nei primi lavori l’estetica queer in Almodóvar è caotica e punk, ben presto la sua opera evolve: resta l’irriverenza, ma la forma si affina. Si passa dal pastiche al melodramma, dall’assurdo alla profondità emotiva. El Matador e La ley del deseo segnano questa transizione: la carne, la morte e l’amore diventano materia da trattare con un’intensità nuova, a tratti tragica.

Mujeres al borde de un ataque de nervios: un’opera al crocevia

Con Mujeres al borde de un ataque de nervios (1988), Almodóvar raggiunge un equilibrio inatteso: la commedia screwball americana incontra il pathos del melodramma europeo. L’ispirazione principale è La voix humaine di Cocteau, ma il filtro è totalmente personale. La protagonista, Pepa, attende una chiamata che non arriva, in una Madrid più teatrale che reale, e con lei il pubblico entra in un incubo domestico venato d’assurdo e malinconia.

Il telefono diventa simbolo dell’assenza, la voce un feticcio, e l’intera narrazione si costruisce sull’attesa delusa: ogni personaggio insegue qualcosa che si dissolve o si traveste. È un cinema dove il reale si piega al sogno, dove gli oggetti – una segreteria telefonica, un rossetto, una valigia – diventano protagonisti tanto quanto gli attori. L’oggetto è il corpo mancante, il surrogato dell’amato irraggiungibile.

Il corpo, la voce e il desiderio: la poetica della frammentazione 

Nel cinema di Almodóvar, il desiderio è una forza disordinata, mai pacificata. Se l’uomo è spesso distante, fuggitivo, il femminile diventa il centro del racconto. Non perché Almodóvar si limiti a raccontare storie di donne, ma perché è proprio attraverso il femminile che egli osserva il mondo. Il desiderio omosessuale, anche quando assente nella trama, si esprime nel posizionamento dello sguardo: è l’identificazione affettiva, non erotica, con il corpo femminile, il bisogno di riconoscersi nell’altro vulnerabile.

Questa strategia dello sguardo è evidente nella centralità della voce. Il telefono non è solo un oggetto narrativo, ma uno strumento semiotico: dà corpo all’assenza. La soggettiva della segreteria telefonica è una delle intuizioni più radicali del film. Il cinema diventa allora un luogo di trasposizione sensoriale, dove le emozioni passano attraverso canali indiretti, dove ciò che non si vede è spesso più potente di ciò che appare.

Estetica pop, citazionismo e l’onirismo postmoderno

L’universo almodovariano è intriso di cultura pop, kitsch, grafismi pubblicitari, melodramma hollywoodiano e citazionismo cinefilo. Non c’è nostalgia, ma un remix consapevole. Da Johnny Guitar a La finestra sul cortile, passando per , ogni riferimento è filtrato e rielaborato. La terrazza finta di Pepa, con vista su Madrid, è teatro artificiale e metafora di un mondo dove la rappresentazione ha sostituito il reale.

Almodóvar non si nasconde dietro l’illusione cinematografica: la mette in scena, la espone, la decostruisce. E in questo si iscrive perfettamente nella poetica del cinema postmoderno, dove la moltiplicazione dei punti di vista è una prassi necessaria. Non c’è più un solo soggetto narrante, ma una costellazione di identità che reclamano voce, corpo e visibilità.

La leggerezza del dolore nell’estetica queer di Pedro Almodóvar

Il segreto del cinema di Pedro Almodóvar sta forse proprio nella sua capacità di trasformare il dolore in ironia, il desiderio in narrazione, l’eccesso in linguaggio. In un mondo dove i codici tradizionali non funzionano più, egli offre una nuova sintassi affettiva e visiva, dove la marginalità è centro, e la commedia è un modo per sopravvivere al melodramma della vita. Il suo cinema è, in ultima analisi, un atto d’amore verso tutte le soggettività in cerca di espressione.

Fonte immagine: Ruben Ortega, Wikipedia

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