Rolling Thunder Revue, Scorsese racconta Dylan

Rolling Thunder Revue, Scorsese racconta Dylan

Rolling Thunder Revue: a Bob Dylan story by Martin Scorsese

“Life is about creating yourself, and creating things”

A un certo punto di Rolling Thunder Revue, il documentario di Martin Scorsese (Casino, Taxi Driver, Goodfellas) sull’omonimo tour degli anni settanta, Bob Dylan pronuncia questa frase che più dilanyana non potrebbe essere. Ma chi è in realtà Robert Allen Zimmerman? Uno, nessuno e centomila, come il personaggio di pirandelliana memoria.

Il menestrello di Duluth, bardo delle utopie sessantine, cantore elevato al rango di poeta, emblema degli eccessi di una generazione, premio Nobel per la letteratura. Nessuna di queste maschere corrisponde minimamente al genio di Dylan.

Appena lo si prova a catalogare in una definizione, ecco che è lì pronto ad inventarsi una nuova trovata, pronto ad ingannarci tutti, dall’alto dei suoi quasi ottanta anni e del suo patto con il diavolo per l’eterna giovinezza.

Su Netflix è appena uscito un documentario del premio Oscar Martin Scorsese che prova a raccontare uno dei momenti salienti della carriera di Dylan: il Rolling Thunder Revue, il lungo tour itinerante gli States durato quasi un anno, a cavallo tra gli anni 1975-1976.

Il regista italo-americano non è nuovo a cimentarsi nel racconto di personalità che hanno fatto la storia della musica: i Rolling Stones di Shine a Light e il George Harrison del bellissimo Living a Material World sono un esempio calzante. Già nel 2005 Scorsese aveva girato un documentario su Dylan, No Direction Home, incentrandosi sul primissimo Zimmerman, il ragazzo che nel 1961 giunse a New York direttamente dal Minnesota. Quello di Rolling Thunder Revue è un però un artista completamente diverso. Ha già pubblicato alcuni tra i più dischi più belli della storia della musica (Blonde on Blonde e Highway 61 Revisisted su tutti), ha cambiato per sempre la musica americana e non solo suonando la chitarra elettrica al Festival di Newport.

Bob Dylan on the road

Dylan sceglie così, in quel momento della sua carriera, di girare in lungo e largo gli Stati Uniti, in un itinerario on the road alla Jack Kerouac (citato a più riprese nel corso del documentario) durato un anno, con 57 date, suddivise in una fase autunnale e in una fase primaverile. Con l’intermezzo del gennaio del 1976, quando fu pubblicato Desire, tra le gemme della carriera del cantautore di Duluth.

Il tour parte da Plymouth, una scelta dai connotati fortemente simbolici e che tanto sarebbe piaciuta al vate Kerouac, di cui peraltro Dylan omaggia la tomba in uno degli intermezzi più commoventi del documentario. La città del Massachusetts è il luogo dove nel 1620 sbarcarono i padri pellegrini, il posto dove partì quel grande romanzo americano di cui Bob Dylan è stato e sarà ancora tra i più grandi narratori. Perché l’America è un po’ di tutti, e non solo degli americani, che l’hanno solo presa in affitto, come direbbe qualcuno.

Parte così più che un tour una carovana in stile circense, un circo burlesque di musicisti, poeti e addetti ai lavori. Ci sono Joan Baez, di ritorno con Dylan dopo gli intermezzi folk di qualche anno prima, c’è Mick Ronson, il chitarrista di David Bowie, c’è il poeta Allen Ginsberg. All’appello non manca nessuno, in questo vero e proprio inno alla vita e alla musica che è il Rolling Thunder Revue.

La carovana circense del Rolling Thunder

Lo stesso Dylan, in una delle sue infinite maschere vissute all’interno di altrettante esistenze, vive con giovialità di questo clima così folle e burlesque, agitandosi sul palco a mo’ di clown come un Iggy Pop qualsiasi. Il vortice di musica e colori è reso dalla moltitudine di musicisti che contemporaneamente suonavano sullo stesso palco.

Prendono così vita non solo i pezzi dell’ultimo Desire, ma anche i più grandi successi del cantautore di Duluth. Mr Tambourine Man, Hurricane (scritta poco prima del tour dopo aver letto la biografia del pugile Rubin Carter), Blowin’ in the Wind, One More Cup of Coffe. Gli arrangiamenti nuovi e sfarzosi riflettono il clima di festa e delirio del tour, tanto che A Hard Rain’s a-gonna Fall, da ballata classica tutta voce e chitarra diventa uno dei momenti più travolgenti dell’intero spettacolo.

L’utilizzo sapiente del materiale montato da Scorsese permette di rivivere con estrema intensità il Rolling Thunder Revue. A tratti sembra quasi di essere lì sul palco, con Dylan e compagni, negli anni del Watergate e della guerra del Vietnam. Non mancano i contributi di chi quel tour lo ha effettivamente vissuto, come Joan Baez. Oppure chi, come Sharon Stone o Martin Von Haselberg, interpretano finte versioni di se stesse. Finte giovani ragazze accompagnati dalle madri al tour, oppure il giovane regista europeo Stefan Van Dorp che avrebbe raccolto all’epoca tutto il materiale necessario all’opera.

Personaggi fittizi, in un esercizio che più che dalla scuola Scorsese appare più improntato alla dilanyana memoria. D’altronde, lo stesso Zimmerman, nel corso del documentario, elegante nel suo volto scavato dall’età e dalle rughe, a dirlo con fermezza. “I don’t remember a thing about Rolling Thunder. It happened so long ago, I wasn’t even born, you know?” E via così, con il comune spettatore che, nonostante le immagini appena ammirate, viene lasciato con il dubbio se quella carovana così bizzarra che lo ha intrattenuto per più di due ore non sia tutta un’invenzione del mefistofelico Dylan.

Fonte immagine: https://www.facebook.com/586431361859377/photos/a.586432271859286/616776608824852/?type=3&theater

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A proposito di Matteo Pelliccia

Cinefilo, musicofilo, mendicante di bellezza, venero Roger Federer come esperienza religiosa.

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