Silicon Valley e Mr. Robot: la serialità nell’era dei big data

Silicon Valley

Durante lo scorso decennio il capitalismo si è declinato come capitalismo delle piattaforme, un capitalismo in cui le grandi aziende tecnologiche giocano un ruolo fondamentale perché sono le sole a poter offrire determinati servizi e a poter sfruttare grandi quantità di dati per ottenere profitti. La serialità televisiva, sempre più affamata di storie, l’ha capito e con due prodotti diversi ha provato a raccontarlo. Le due serie in questione sono Silicon Valley e Mr. Robot. Finite entrambe nel 2019, erano iniziate rispettivamente nel 2014 e 2015 quando il tema della privacy, dei big data e delle infrastrutture tecnologiche non era ancora così centrale.

Silicon Valley è una serie comedy con puntate che durano circa 30 minuti. Racconta il tentativo di Richard Hendricks, ingegnere informatico di talento, di fondare una startup di successo. Pagando un affitto esorbitante, Richard vive in un incubatore con quelli che scopriremo essere i suoi coinquilini, colleghi ed amici. Nel tentativo di realizzare il suo sogno si confronterà con un mondo esterno autoreferenziale, cinico, viziato che non conosce limiti e che riesce a corrompere qualsiasi idea col denaro. È la Silicon Valley, raccontata con la lente della fiction ma estremamente realistica nel descrivere le dinamiche umane e di potere che rendono vive aziende che valgono miliardi di dollari e che il più delle volte sono gestite da ricchi egocentrici.

Sin dalla prima puntata la serie attinge dichiaratamente all’immaginario stereotipato costruito sulla Valley negli anni e lo sbeffeggia. Nelle prime stagioni il meccanismo narrativo si basa soprattutto sulle dinamiche tra i protagonisti (anch’essi notevolmente stereotipati) e sulle aziende per cui sono costretti a lavorare. Col passare del tempo però la serie tende sempre più al racconto dell’attualità focalizzando l’attenzione non più solo sulle grandi aziende tecnologiche e sul loro incomprensibile e buffo, se visto dall’esterno, modo di lavorare ma anche sul loro impatto sulla società. E così le avventure di Richard, Gilfoyle, Dinesh e Jared diventano il miglior modo per raccontare la trasformazione della percezione delle grandi aziende tecnologiche nell’immaginario collettivo. Del resto nel 2014, anno in cui Silicon Valley inizia, una testimonianza di Mark Zuckerberg al Congresso degli Stati Uniti era impensabile.

I protagonisti di Silicon Valley devono costantemente confrontarsi con la necessità di trovare dei fondi per realizzare il loro sogno e la volontà di non corrompere l’idea di una internet migliore. Il problema è che i fondi che servono per sviluppare una buona idea sono nelle mani di persone che hanno interessi divergenti. Che si tratti di aziende concorrenti che vogliono appropriarsi di un’idea potenzialmente distruttiva per i loro affari o di miliardari che considerano l’investimento solo dalla prospettiva del profitto, è evidente che nessuno dei potenziali investitori si preoccupi del benessere della collettività.

Richard Hendricks è costretto a comprendere in che misura sia giusto accettare quei compromessi e quale sarà il loro impatto su se stesso e sulla società. Nel prendere queste decisioni Richard è però sempre in compagnia dei suoi amici, una piccola comunità che rende le sconfitte più accettabili e le vittorie più godibili.

Un senso di comunità che invece manca nelle quattro stagioni di Mr. Robot. La serie con Rami Malek trasmessa da USA Network racconta del tentativo di Elliot Alderson, giovane ingegnere informatico sociofobico, di causare il fallimento della E Corp, potente multinazionale ritenuta principale responsabile del malessere della società. Con Mr. Robot la prospettiva si ribalta: l’attenzione non è più rivolta a chi sogna di sviluppare tecnologie ma a chi le usa o, in base alle prospettive, subisce. La visione di Elliot è negativa al punto tale da pensare di dover distruggere l’intero sistema dalle sue fondamenta perché non c’è nessuna possibilità di cambiamento. L’unica opzione possibile è una rivoluzione. Ma anche Elliot, come Richard, deve porsi più volte un problema etico delle scelte. In particolare, dovrà farlo in una puntata dell’ultima stagione quando la scelta dell’oltrepassare o meno ogni limite non potrà più essere nascosta.

La visione profondamente negativa di Elliot deriva da un senso di impotenza dovuto allo strapotere nelle mani dell’1% dell’1% della società, dei semidei che vivono e agiscono come tali. Proprio nella rappresentazione di questi semidei emerge una delle differenze fondamentali tra Mr. Robot e Silicon Valley. Il potere rappresentato in Mr. Robot è forse più vicino alla realtà ma appare come irraggiungibile, astratto, oscuro e contribuisce a creare la percezione di esseri intoccabili. Con i toni della commedia, Silicon Valley ci mostra questi semidei nella loro egocentrica, meschina umanità. Hanno uno strapotere e vivono effettivamente come dèi. Ma sono uomini, possono essere sconfitti. Che nei fatti poi non succeda è un’altra questione che non riguarda chi sono, ma in quale sistema e contesto operano.

Siamo sempre più connessi, ma soli. Abbiamo la consapevolezza della complessità di un sistema che di fatto non può più essere controllato anche e soprattutto perché, nella quasi totalità dei casi, chi potrebbe non ha nessun interesse a farlo. Dato ciò, se considerate in modo complementare, Silicon Valley e Mr. Robot aiutano a comprendere quali sono le opzioni a disposizione.

La prima è lasciare che queste grandi aziende continuino a plasmare la nostra realtà con algoritmi di cui non sappiamo niente generando profitti e accumulando potere a discapito della collettività. Continuare a non gestire questo processo sperando che si autoregolerà.

In alternativa, possiamo abbracciare la visione di Mr. robot, arrenderci alla possibilità di un cambiamento graduale, indossare felpa nera e cappuccio e provare a dare inizio a una rivoluzione. Cambiare tutto e subito o non cambiare niente. Il problema è che la rivoluzione di Mr. Robot è frutto di un malessere individuale. È una risposta singola ad un disagio collettivo. Pur volendo ammettere che sia possibile, quanto è legittimo sperare che un singolo individuo possa migliorare il mondo per tutti? La serie con Rami Malek non elabora una risposta convincente e rischia anche di trasmettere un messaggio vagamente reazionario. Svolge comunque una funzione fondamentale nel rappresentare un malessere latente. I monologhi di Elliot trasmettono perfettamente il senso di disillusione provato da una parte della società che si sente sopraffatta ed emarginata da un modello iperconsumistico che si autorappresenta.

Resta un’opzione, quella che vediamo in Silicon Valley. Immergersi nella realtà che non è affatto bella, né democratica, né progressista e sostenere un costo individuale molto elevato accettando delusioni e compromessi. Lo si può fare scegliendo dei compagni di viaggio per cercare insieme una risposta. Non tanto perché sarà la risposta migliore, ma perché sarà più facile accettare ciò che ne conseguirà e se anche tutto dovesse andare male resterà il viaggio condiviso. Sarà anche banale, ma essere in compagnia e lanciare una pallina urlando «Sempre blu! Sempre blu! Sempre blu!» può fare la differenza.

Quello che però emerge da entrambe le serie con un pizzico di inevitabile amarezza è la profonda consapevolezza, ormai diffusa a tutti i livelli, di un’asimmetria nei rapporti di forza tra sogni individuali, capacità di elaborare risposte collettive e resistenza del sistema ai cambiamenti.

Fonte immagine: Hackernoon

A proposito di Salvatore Tramontano

Studia Mass Media e Politica presso l'Università di Bologna. Scrive per capire cosa pensa.

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