The Last Dance, ultimo tango a Chicago

The Last Dance

The Last Dance, l’ultima annata di Jordan e compagni.

Chicago, Illinois, primavera del 1998. Allo United Center vanno in scena le ultime partite di quella che è, secondo giudizio unanime, la miglior squadra di pallacanestro di tutti i tempi. I Chicago Bulls di Michael Jordan, Scottie Pippen e Dennis Rodman, quelli che a fine stagione riusciranno nel secondo three-peat, una delle fatiche più incredibili della storia dello sport professionistico americano e non solo. La vittoria, in sequenza e per ben tre anni di fila (’96, ’97, ’98), del titolo NBA, il campionato di basket americano. Un’impresa inimmaginabile e che sancirà il definitivo ingresso di quella squadra nell’Olimpo della narrazione sportiva.

The Last Dance è il racconto di quell’incredibile, ultima annata, di Jordan e compagni. Co-prodotto da ESPN e trasmesso, al ritmo di due puntate settimanali, da Netflix nell’ultimo mese, la docuserie si avvale di contributi inediti, ad oltre vent’anni di distanza dalla stagione NBA ’97-’98. La premessa, nell’analizzare un prodotto del genere, è di quelle scontate, ma necessaria. Scrivere, analizzare, raccontare qualcosa di nuovo, a proposito di un personaggio come Michael Jordan, indiscusso attore protagonista, è come farlo di Maradona, Gesù Cristo o Fidel Castro. Vite incredibili, che racchiudono in sé migliaia di altre esistenze “normali” e che, per la forza e la vitalità delle loro esperienze, sono trascese certamente ad un rango più alto di quell’humanitas che caratterizza noi comuni mortali.

The Last Dance: ultimo tango a Chicago

The Last Dance si cimenta perciò in un’impresa mastodontica e apparentemente insormontabile, dal quale tuttavia fuoriesce un prodotto estremamente godibile, anche ai non appassionati di basket. Per chi non conoscesse l’esito di quell’annata, delle memorabili Finals giocate contro gli Utah Jazz di John Stockton e Karl Malone, The Last Dance potrebbe avere le sembianze di una miniserie crime. Se The Irishman non fosse uscito mesi fa, a tratti, guardando The Last Dance, sembra di assistere all’ultimo film della coppia Martin Scorsese- Robert De Niro.

Jordan, Pippen, il coach Phil Jackson sono infatti perfettamente a loro agio nella parte dei vendicatori di ingiustizie e dei torti subiti nel corso dei tanti passati insieme. E così, sotto a chi tocca, che sia il complessato ma geniale general manager Jerry Krause, i Detroit Pistons dell’odiato Isaiah Thomas, il povero ed ignaro compagno di squadra Kukoč, reo di guadagnare di più dei membri storici del gruppo.

Durante le riprese dell’ultima annata i giocatori dei Bulls sanno perfettamente di star recitando una parte assegnatagli a tavolino da un copione già scritto da qualcuno lassù, e che vedrà Jordan, con la sua aura trascendentale, trionfale in qualche modo alle finali dei campionati NBA. Questo tuttavia non intacca minimamente il fascino della visione, seducente per chi non conoscesse l’intera vicenda così come per chi fosse in grado di recitare a memoria le imprese di quei Chicago Bulls. The Last Dance poi, è inutile negarlo, si avvale dell’interpretazione di quello che è uno dei più grandi attori degli ultimi trent’anni di intrattenimento americano. Michael Jeffrey Jordan.

Michael Jordan e i Bulls come non li avete mai visti

Un uomo, un giocatore dotato di un talento divino e che ha letteralmente rappresentato un centro di gravità permanente per tutti gli anni novanta, trovandosi addosso le attenzioni dell’intero pianeta. Guardando The Last Dance emerge un ritratto per certi versi oscuro e che non dimentica i lati più controversi del Michael persona e del Michael giocatore. Indifendibile, anche a distanza di anni, il mancato appoggio del candidato afroamericano per il senato del North Carolina, così come la sua innegabile passione per il gioco d’azzardo. Ma allo stesso tempo non si può non rimanere ammaliati dal suo spirito competitivo, dalla sua voglia di essere sempre ed in qualunque contesto il migliore di tutti e dalla sua forza incredibile nel trasportare tutto questo in un campo da basket.

Il racconto di una squadra così leggendaria non può però assolutamente essere frutto dell’opera di un singolo uomo. Il montaggio del materiale raccolto dall’accoppiata ESPN/Netflix (si parla di centinaia di ore di video inediti) fa numerosi salti temporali, principalmente a partire dal 1984, anno dell’ingresso di Jordan nel mondo NBA. E così si va indietro continuamente, per risalire alla lenta, ma inesorabile costruzione della squadra. Ci sono puntate dedicate interamente ad altri membri della squadra (Pippen e Rodman su tutti) e all’allenatore Phil Jackson. C’è Jerry Krause, massimo dirigente della franchigia, forse il personaggio più complesso della docuserie. Odiato da Michael e compagni, non gli si può tuttavia negare un certo fiuto visionario nel prendere scelte che, a posteriori, avrebbero contribuito a fare le fortune dei Bulls.

Ma The Last Dance funziona perché, in un certo senso, è un po’ la storia di tutti noi, più precisamente di un certo spaccato di società americana. Ci sono infatti tutti i dietro le quinte del patinato mondo NBA, con le copertine, le pubblicità e gli ingaggi milionari. Ma dietro questa facciata, ci sono le storie di uomini, che come tutti noi presentano vizi e virtù, e che, diventati giocatori professionistici, in fin dei conti si trovano a dover interpretare una parte, un ruolo. Jerry Krause è infatti un personaggio geniale nello scovare giovani talenti e nel costruire i Chicago Bulls leggendari che tutti conosciamo, ma è anche una persona limitata enormemente dai suoi complessi nevrotici. Scottie Pippen è un giocatore di enorme fattura, entrato nella leggenda del gioco, ma le sue gelosie nei confronti del nuovo arrivato Kukoč, reo di avere un ingaggio troppo alto, replicano dinamiche da ufficio che non si direbbero appartenenti a una squadra di basket. Per non parlare del divino Michael, idolo delle folle oceaniche, e dei vizi umanissimi di cui si è già parlato.

Ce n’è insomma un po’ per tutte le salse e tutti i gusti, in The Last Dance. Una docuserie di notevole valore ma che rischia di cadere nella semplicistica trappola del prodotto sportivo. Invece The Last Dance è molto di più, ed è innegabile non provare una certa dose di fascino nel guardare interviste, racconti e aneddoti relativi a una delle squadre più leggendarie della storia dello sport. I Chicago Bulls, versione ’97-’98, di Michael Jordan, Scottie Pippen e Phil Jackson.

A proposito di Matteo Pelliccia

Cinefilo, musicofilo, mendicante di bellezza, venero Roger Federer come esperienza religiosa.

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