Hai mai avuto paura? | Recensione

Un film horror italiano - Hai mai avuto paura?

Hai mai avuto paura? Così si apre il nuovo film horror italiano uscito nelle sale il 27 luglio 2023 per la regia di Ambra Principato: “Hai mai avuto paura?”. Il lungometraggio ha attratto fin da subito il pubblico e la critica per il suo essere un film di genere, poiché al giorno d’oggi è raro trovare film italiani con una buona distribuzione che non siano le solite commedie o comici affermati e i pochi autori; inoltre l’opera segna l’esordio della giovane regista, facendo presagire già dal trailer un horror diverso dal solito, che sembra riflettere sul senso stesso della paura.

La trama

Il film horror racconta le vicende di una famiglia nobile italiana dell’Ottocento, che un giorno scopre di essere stata assaltata durante la notte da una presunta “bestia”, la quale compie razzie decimando gli animali del villaggio circostante. L’alone di mistero legato a questo fenomeno va ad intrecciarsi con il carattere solitario ed introverso del figlio maggiore del conte, Giacomo, il quale a sua volta è causa dei momenti di rabbia e crudeltà di sua madre Adelaide, cattolica convinta e bigotta contraria alla poesia adorata dal figlio; tuttavia anche i due fratelli minori del ragazzo e il conte Gustavo sembrano agire di nascosto ed in modo talvolta inspiegabile, mentre il terrore per la bestia dilaga, come i metodi pagani dello zingaro Scajaccia assunto dal capofamiglia stesso per sedare le proteste del popolo. Purtroppo il mistero in breve si trasforma in orrore, quando oltre agli animali la bestia inizia ad uccidere anche esseri umani.

Una sceneggiatura complessa, tra metanarrazione e superficialità

Partendo dalla trama, si può analizzare la sceneggiatura, che non è semplice come si può pensare: la storia si muove su due livelli, ovvero ciò che accade alla famiglia nobile con i suoi personaggi (tra cui Giacomo e il fratello minore Orazio rivestono un ruolo primario) e una sorta di racconto metanarrativo sulla paura. Da ciò emerge chiaramente la mano (nella regia e nella sceneggiatura principalmente) e la voce dell’autrice, in quanto sfruttando la poesia, che Giacomo sta scrivendo nelle prime scene e che Orazio legge poco dopo, le parole del fratello maggiore accompagnano la trama parlando della paura, come sentimento indispensabile per gli esseri umani nella storia e anche come motore della stessa trama; inoltre l’opera intera e la poesia metanarrativa contengono chiari riferimenti al romanzo “Io venía pien d’angoscia a rimirartidi Michele Mari, in cui i personaggi e l’ambientazione sono ispirati alla vita di Giacomo Leopardi ma tradotti in chiave horror-psicologica.

I riferimenti al romanzo e la stessa struttura del lungometraggio hanno una funzione ben precisa: trattare i temi della poetica di Leopardi, a sua volta critici verso il suo contesto storico e familiare, cioè il bigottismo del cattolicesimo, la condizione degli emarginati e lo stato di natura degli esseri umani, per riproporli nella contemporaneità anche nel cinema in chiave horror. Proprio qui risiede una prima falla del film, ovvero la sostituzione del carattere horror-psicologico del romanzo con il carattere puramente horror della pellicola (soprattutto nel finale, addirittura banale), perché la tanta “carne al fuoco” messa nei dialoghi e nella metanarrazione sui temi detti precedentemente finisce per risolversi in una trama lineare e canonica per il genere nella conclusione fine a sé stessa, eliminando la componente psicologica e lasciando aperti molti quesiti: un esempio tra i tanti è il comportamento ambiguo del conte, intento a nascondere e bruciare i documenti dei suoi antenati, per ragioni non spiegate; inoltre, per quanto si possa dedurre la soluzione a questo mistero, quello che il lungometraggio ci fa recepire è la classica “toppa” paranormale che mette fine alle storie horror più banali, rendendole quasi inutili e prive di messaggi.

Una messa in scena perfetta

A parte questo grande problema nella sceneggiatura, la qualità più apprezzabile del film horror è la messa in scena: la scenografia e i costumi sono perfetti per l’ambientazione, ovvero il tipico borgo italico ottocentesco con il suo villaggio di contadini, artigiani e mercanti, il bosco pieno di animali selvatici, i nomadi pagani emarginati dai predicatori cattolici e il castello nobiliare, simbolo di repressione dall’alto. In questo aiuta certamente la caratterizzazione dei personaggi e la recitazione attraverso un linguaggio altamente espressivo, perfetto connubio tra i termini arcaici dei contadini e quelli aulici dei nobili, vicini tra l’altro a quelli della poesia, ostile al clero e alla contessa bigotta ma amati dal pagano Scajaccia e dal contessino emarginato Giacomo: l’opposizione tra i personaggi, determinata pure dal loro linguaggio, mette in risalto la repressione della religione che fallisce continuamente contro la bestia, evidenziando ancor di più la fragilità dell’uomo nel passaggio veloce dalla religione alla magia, causata dall’ignoranza e quindi dalla paura di ciò che si ignora.

Fotografia e regia: la mano visibile dell’autrice

La fotografia molto cupa lascia ampi spazi di manovra al mistero e alla paura, che negli angoli bui di ogni inquadratura riescono a prevalere sulle altre sensazioni ed emozioni dando continuità alla tensione narrativa, interrotta da pochi jumpscare non banali ma tipici per i film horror. Attraverso la tensione l’utilizzo dei colori e della luce è indissolubilmente legato alla regia, molto equilibrata: le inquadrature larghe permettono allo spettatore di esplorare con gli occhi l’oscurità e la profondità di campo, indagando in un crescendo di tensione favorito dalla colonna sonora, che a volte sovrasta giustamente i suoni e le voci; d’altra parte i semplici movimenti di macchina sembrano indagare essi stessi gli spazi, rendendo visibile il tocco della regista, quasi spiando di nascosto i personaggi e a volte impersonando la “bestia” stessa attraverso disturbanti soggettive.

A proposito di visioni disturbanti e disgusto, la recensione non può non concludersi con l’uso del sangue nel film, infatti spesso gli omicidi vengono annunciati attraverso lunghi movimenti di macchina e inquadrature strette su dettagli di ambienti e persone seguendo scie e impronte sanguigne, come se, invece di immedesimarci nell’occhio empatico di un personaggio positivo pronto ad aiutare la vittima, ci immedesimassimo in quello sadico della bestia ancora affamata e compiaciuta del suo orrore.

Fonte dell’immagine per “Un film horror italiano – Hai mai avuto paura?”: www.ferrerocinemas.it

A proposito di Giuseppe Arena

Ciao, mi chiamo Giuseppe Arena e sono di Napoli. Fin da bambino amo il cinema, infatti ora lo studio alla facoltà di Scienze della comunicazione, presso l'Università Suor Orsola Benincasa; inoltre nel tempo libero, oltre a guardare film, ne parlo pure su "Eroica Fenice" e sulla mia pagina Instagram "cinemasand_". Oltre al cinema, sono appassionato anche di altre arti, comunemente incluse nella "cultura-pop", come le serie-tv e i fumetti: insomma penso che il modo migliore per descrivere il mondo sia raccontare una storia!

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5 Comments on “Hai mai avuto paura? | Recensione”

  1. Meta narrativa? Con scappellamento a destra o a sinistra? E quale, prego d’illuminarmi, opera d’arte che si rispetti sarebbe senza meta narrativa? A me non viene in mente nessuna.
    E poi, 5 paragrafi sulla trama e sulla sceneggiatura. Cioè, praticamente, letteratura e non cinema. Sarebbe come recensire Caravaggio narrando come Giuditta decapiti Oloferne, o raccontando come la Madonna regge il bambin Gesù nel quadro di Raffaello, evidentemente senza aver minimamente capito che non sia la “narrativa” – neppure quella “meta” – che rende i quadri di quelli signori i ciò che siano. Se adattassimo questo tipo d’approccio al recensire il cinema (e pare che sia adattato più o meno dappertutto), i “fumetti” – almeno dal punto di vista letterario – come “Gladiatore” di Ridley Scott o “Jurassic Park” di Spielberg sarebbero non dei capolavori cinematografici ma spazzatura. E non sono spazzatura. Cioè, come cinema. Come letteratura, bhe, si…
    Solo un piccolo paragrafino dedicato, congiuntamente, alla fotografia e la regia, dove la regia è menzionata in una mezza frase e definita come “equilibrata”. Parlando di “argumentum ad hominem” o, come direbbero giustamente i Romani contemporanei, “e cche vor di’?” o peggio “sse lo dici tu…”.
    Ma la vera chicca che brilla e scintilla per la sua totale assenza, è la recitazione. Semplicemente non menzionata come non lo siano neppure gli attori. Certo, per un FILM non avranno ne rilevanza ne gloria neanche avvicinabili a quella di “meta narrativa”, specie con scappellamento a destra…
    Oppure, potrebbe darsi che sia la regia vera e propria (cioè il lavoro con gli attori) che gli attori, abbiano fatto talmente schifo che il recensore, per bontà sua, li avesse avvolto nel velo pietoso del silenzio non menzionando neanche i nomi degli attori che, volente o nolente, abbiano fatto questo film. Oppure il recensore sia un Brechtiano fino al punto di considerare gli attori come le bestie da soma non meritevoli neanche d’una menzione?

    1. Grazie per il commento! Sono Giuseppe, ho 21 anni e attualmente studio Scienze della comunicazione, nell’ambito cinematografico e televisivo, all’università, ma per la mia giovane età e poca esperienza ho ancora molto da imparare, scrivendo da poco sia sulla mia pagina Instagram sia su questo giornale, dunque prendo la maggior parte delle tue critiche come costruttive e ti ringrazio nuovamente; inoltre vorrei complimentarmi con te, perchè se esistesse la critica della critica cinematografica ti proporrei da subito al direttore!

      1. Prima e innanzitutto, Giuseppe, ti chiedo scusa per il tono sarcastico e acidulo del mio commento: la mia aggressività è frutto di una crescente frustrazione con lo stato della critica (non solo cinematografica). Ed è nient’altro che un segno di debolezza causa l’impotenza di cambiare qualcosa. Quindi, ogni tanto mi sfogo. Scusami. Per quanto al dunque, infatti, la tendenza odierna è frutto di alcune influenze, tra cui due dominanti sono, al mio avviso, due: l’arte concettuale (“Duchampismo” come lo chiamo io) e il Realismo Socialista (anche quel Critico, italiano, non scherza). Vedono l’opera d’arte innanzitutto come uno “stement” (infatti, un concetto) e lo analizzano innanzitutto come tale. In questo modo, tutto – le arti visive, cinema, poesia anche la musica – va visto, e recensito, come un pezzo letterario, peggio, come una dichiarazione. Infatti, quando sento “significato” “il messaggio” “l’idea”, inizia a mancarmi un’arma automatica :))). Certo, l’idea, il messaggio, il significato, la narrativa, ecc., sono importanti. Ma fino ad un certo, non tanto alto, punto. Un ragazzo s’innamora con una ragazza. I genitori non vogliono. Il ragazzo litiga con il ragazzo dalla famiglia di sua amorosa e l’uccide. Guai. I due s’uccidono. Una strozzata lacrimosa e un po’ stucchevole, no? Ma non quando la scrive William Shakespeare. L’idea? Il messaggio? La narrativa? Si. Ma di pochissima importanza. O, per esempio, chi durante il Rinascimento non avesse dipinto almeno una madonna? Ma la Madonna di Rafaello è la Madonna di Rafaello, e certo non per l’unicità del “messaggio” o dell'”idea”, o del “significato”, no? E per che cosa, quindi? Ed è questo il punto: è tanto facile scrivere una recensione quanto è incredibilmente difficile scrivere una buona recensione. Perché, il “messaggio” a parte, deve essere concentrata non tanto su cosa quanto su come. I critici d’arte sono stati fregati dal periodo del dominio dell’arte non figurativa. Avrebbero dovuto andare nella direzione che accerta che, come scritto io altrove, la figura nell’arte è accidentale, per cosi dire, il componente letterario, ma nell’arte come l’arte esiste solo l’arte astratta che tratta con luce, colore, spazio, materiale, e gesto (il più difficile da spiegare proprio quest’ultimo). Ma invece badare in questa, più difficile, direzione, i critici d’arte hanno creato un intero armamentario d’arie fritta (sempre sulla'”idea”, il “messaggio”, ecc.) e hanno subito cominciato promuovere il concettuale, neo-figurativo, “performance”, “istallazione” ed altre “forme” molto più facile a recensire. Nel cinema è ancor più difficile, perché la luce, lo spazio, il colore e in gran parte lo “gesto” stesso è la provincia del DOP (infatti, guarda Tarkovsky: dopo il DOP Iusof ha fatto solo un film visivamente decente – Lo Specchio con il DOP Rerberg. Ho già menzionato i fratelli Scott: anche una cagata fascista come “Private Jane” è un capolavoro per come sia girato e diretto).
        Se scrivesse le recensioni cinematografiche io (in inglese… mio italiano fa schifo… e mi scuso anche per questo), avrei dedicato:
        due righe alla trama;
        – un piccolo paragrafo al “messaggio”, “l’idea”, “il significato”, ecc., senza neppure ragionare tanto sopra, perché, tutto sommato a chi se ne frega…;
        – tanto alla fotografia, compresi anche le scelte della regia sul uso dei campi e di fuoricampo (importantissimo perché niente più di uso del fuoricampo sia indicativo degli atteggiamenti, e anche le fobie, del regista…). Ed è qui laddove si parla anche del “gesto” ;
        – tanto, alla regia come lavoro con gli attori, facendolo dove possibile nel modo comparato “giustapponendo” il lavoro del attore con il suo lavoro in altri films (un’esempio per tutti: di solito George Clooney recita da cane, ma negli mani di fratelli Cohen o di Soderbergh non è niente male. E, con rispetto parlando, “la regia equilibrata” non vuol dire niente: bisogna almeno ragionare sopra);
        – tantissimo agli attori. Senza di loro il film non c’è e non può essere. E sarebbe anche un sano segno di rispetto – parlare di loro. Eppoi, paradossale ma fattuale, con una buona sceneggiatura, un bravo DOP e i bravissimi attori, il regista diventa quasi un’extra “sostituibile”, specie questo che lavora tanto con gli effetti speciali.
        In fine, m’irrita tanto questa “referenzialita’ erudita” che subito cerca di mettere il film in una scatola referenziale con una mezza dozzina di altri, spesso offendendoli… se fosse Ambra Principato, non mi piacerebbe essere comparato ad Avati che non abbia fatto un buon film in tutta la sua vita (sarebbe meglio se avesse continuato di suonare cin Lucio Dalla).
        Eccetera.
        Avrei scritto io la recensione su “Hai Mai Avuto Paura”, per fare un esempio, ma, confesso, non sono disinteressato… eppoi da parecchio tempo non scrivo “agratisse” :), tranne, ovviamente, questo pezzo – per scusarmi d’essere stato cosi gratuitamente brusco.
        Saluti e buon lavoro.

        1. Ciao, grazie delle scuse, ma in ogni caso gran parte di ciò che hai menzionato tra le ragioni dei tuoi toni e delle tue critiche lo avevo già immaginato, più che altro ragionando sui miei eventuali errori e su come correggerli in futuro. Al di là di ciò per quanto riguarda il mondo e il concetto di critica dell’arte (soprattutto cinematografica) a parer mio nulla è oggettivo, nel senso che si possono avere opinioni contrastanti su ciò che significano e la stessa storia ne è la riprova come i vari tipi di critici esistenti; tuttavia ciò non toglie che sono d’accordo con te sul fine ultimo della critica, ovvero non parlare di “cosa” significa un’opera ma “come” l’artista porta quell’opera a signifcare tale cosa ed è quello che cerco di fare io, anche non riuscendoci in parte. Apprezzo il tuo impegno nell’analisi della mia recensione e nella proposta della tua, però anche lì al di là degli eventuali errori penso che ognuno possa procedere diversamente. Detto ciò, infine mi auguro di migliorare in futuro e di nuovo ti ringrazio per le riflessioni. Buona giornata!

          1. E abbe’, come si dice, c’ho provato… Ma Lei sta confirmando, paradossalmente, esattamente il ciò che abbia detto io: non esistono più cannoni, praticamente ognuno recensisce ciò che vuole come vuole. Proviamo pure giocare ping-pong con la palla da tennis, e vice-versa. E perché no? “Innovativo”, “sorprendente” e innanzitutto “trasgressivo”. Ed è questo che ci vuole oggi piu che mai. 🙂
            Saluti e buon lavoro.

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