Un’esperienza di gioco unica del suo genere con un’incredibile avventura spaziale, immersi in un universo dalla grafica impeccabile, caratterizzato da pianeti la cui identità è curata nei minimi dettagli. Un insieme di coinvolgenti rompicapi e misteri da svelare, che costringono il videogiocatore a tenere la propria mente sempre attiva e rimanere incollato allo schermo. Una profonda riflessione sullo scorrere del tempo, sul potere della casualità, ma soprattutto, su sé stessi. Questo e molto altro è Outer Wilds, il capolavoro videoludico di Mobius Digital, che ha debuttato nel 2019 grazie al sostegno della casa videoludica Annapurna Interactive.
Se volessimo descrivere Outer Wilds in poche parole, dovremmo definire quest’opera come un videogioco di azione e avventura in prima persona, in cui il giocatore veste i panni di un giovane esploratore spaziale, appartenente a una specie aliena (i Teporiani), pronto ad intraprendere il suo primo viaggio all’interno del proprio sistema solare. Addentrandosi tra i misteri e le peculiarità che caratterizzano i pianeti, però, il videogiocatore si renderà presto conto che quest’opera non consiste in un semplice open world ambientato nello spazio, né segue le dinamiche tipiche del classico gioco di avventura. Del resto, diverse persone che hanno deciso di approcciarsi a questo titolo hanno affermato, in seguito, che Outer Wilds ha in qualche modo «cambiato loro la vita».
Attenzione: da questo momento in poi, l’articolo conterrà spoiler. Si sconsiglia, quindi, di proseguire la lettura se desiderate vivere questa avventura videoludica senza rovinarvi l’esperienza di gioco!
Ma cosa rende Outer Wilds così speciale, diverso rispetto all’esperienza videoludica a cui si è solitamente abituati?
Le modalità di gioco
Dopo aver cliccato sulla voce Nuova Spedizione nella pagina principale, il videogiocatore si ritrova avvolto nel buio, venendo invitato a svolgere una semplice azione: «svegliati». Dopodiché, il protagonista apre i suoi occhi, e assieme ad essi si apre dinnanzi al giocatore la visuale su un cielo stellato, sul quale figura un enorme pianeta in movimento. Spostando la visuale, ci si accorge di trovarsi di fronte a un falò, immerso nella rassicurante atmosfera del proprio pianeta natale, Cuore Legnoso. Parlando con la figura più vicina a sé – un alieno con quattro occhi e un abbigliamento da pilota, di nome Slate, che apprendiamo essere un nostro compaesano – il videogiocatore inizia ad intuire quale sia il suo ruolo e quali potrebbero essere le sue prossime mosse. Slate, infatti, lascia intendere che il protagonista stia per intraprendere il suo primo viaggio da solo nello spazio, che deve recarsi da tale Scogliocorno, in un certo osservatorio, per ritirare i codici di lancio della sua navicella. Dunque, già si può intuire che Outer Wilds non espone missioni da portare a termine, né da indicazioni precise su cosa fare e in quale ordine farlo: è tutto lasciato all’intuizione del videogiocatore, alla sua curiosità, quasi a voler rispecchiare lo spirito dei teporiani, che esplorano lo spazio spinti dalla sete di conoscenza, piuttosto che dalla volontà di raggiungere uno scopo preciso. Ciò viene riconfermato dallo stesso Slate: alla domanda «Quando sarò nello spazio quale sarà la mia missione?», ci suggerisce di andare nello spazio e divertirci, senza la smania di esplorare qualcosa di specifico. Questa modalità di esplorazione permane per tutta la durata del gioco: nessuna indicazione precisa, nessun comando, nessun ordine da seguire – anche se, ovviamente, vi sono alcune cose che è necessario scoprire affinché altre assumano un senso e si riesca ad andare avanti. In Outer Wilds, il videogiocatore deve solo esplorare, navigare nello spazio e nei misteri che lo circondano spinto dalla propria curiosità e dalla sua libera intuizione.
La trama di Outer Wilds
Esplorando Cuore Legnoso, il protagonista si imbatte in un museo, che ci dà il benvenuto con una statua raffigurante quella che scopriamo essere una specie aliena esistita molto tempo prima dell’inizio della narrazione: i Nomai. L’intero museo è una raccolta di manufatti nomai; informandosi su di essi, il videogiocatore apprende di essere dotato, per il suo viaggio, di uno strumento che consente di tradurre istantaneamente gli scritti nomai e di essere il primo degli esploratori spaziali ad avere l’occasione di poterne disporre. Ciò lascia intendere che quello che ci è stato descritto come un semplice primo viaggio in solitaria potrebbe essere l’occasione per comprendere qualcosa in più su questa specie estinta e sui misteri che celava. E probabilmente, giunti a questo punto, il videogiocatore si starà già ponendo svariati interrogativi. Come se non bastasse, al momento di uscire dal museo, la statua nomai si volta verso il protagonista, aprendo gli occhi e mostrandogli tutte le azioni compiute dal momento del suo risveglio. A questo punto si può decidere se proseguire iniziando a intraprendere l’esplorazione spaziale, girovagare per Cuore Legnoso interrogando qualsiasi Teporiano capiti a tiro, oppure rimanere semplicemente di fronte alla statua nomai cercando di comprendere cosa sia accaduto; in entrambi i casi, questo stato di pace apparente non durerà a lungo. Dopo 22 minuti dallo scambio di sguardi con la statua, infatti, il sole esploderà, con la conseguente fine del sistema solare in cui il protagonista si trova… beh, giusto per qualche istante. Perché qualche istante dopo, il protagonista apre gli occhi, ritrovandosi nuovamente di fronte al falò, e apprendendo ben presto che nessuno – a parte lui – sembra essere consapevole di trovarsi all’interno di quello che ha tutta l’aria di essere un loop temporale.
Lo scorrere del tempo e l’accettazione della fine
«The past is past, now, but that’s… you know, that’s okay! It’s never really gone completely. The future is always built on the past, even if we won’t get to see it.»
Alla prima esplosione del sole, si apprende quanto sia cruciale la tematica del tempo in Outer Wilds: trattandosi di un loop temporale, ogni 22 minuti l’universo è destinato a terminare e si è costretti a ritornare al punto di partenza, e ciò inevitabilmente influisce anche sul modo in cui il giocatore decide di organizzare la propria esplorazione. Ma il peso dato allo scorrere del tempo non si limita a questo: vi è un’evidente influenza anche sui pianeti, che nel corso dei 22 minuti a nostra disposizione cambiano la propria fisionomia. La sabbia che scorre tra Gemello Braci e Gemello Cenere fa sì che si abbiano tempi limitati per poter esplorare gli strati più profondi dell’uno o dell’altro pianeta, ciò che si trova sotto la crosta ghiacciata del misterioso satellite, noto come L’Intruso, è visibile solo nel momento in cui il ghiaccio in superficie è sciolto dalla vicinanza con il sole, alcuni luoghi di Vuoto Instabile vengono mano a mano risucchiati dal buco nero…
Lo scorrere del tempo suggerisce al videogiocatore di avere una certa progettualità nell’esplorazione, di stabilire delle priorità, di giocare d’astuzia e volgere i mutamenti nella struttura dei pianeti a proprio favore.
Ma ci sono, all’interno del concetto di tempo, alcune casualità su cui agire è impossibile: è solo un caso che il protagonista si sia ritrovato di fronte alla statua esattamente nel momento in cui il sole stava terminando il proprio ciclo di vita naturale, ed è un caso che il protagonista si ritrovi a vivere la propria vita esattamente in quel momento, prossimo alla fine dell’universo. L’illusione di poter manipolare il tempo deve fare inevitabilmente i conti con l’inarrestabilità del ciclo della vita, con l’inevitabilità della morte, della fine. Probabilmente è proprio questo lo shock più grande che il videogiocatore si ritrova ad affrontare: un istante prima credeva di essere il prescelto, colui che è destinato a salvare il mondo attraverso la scoperta di misteri irrisolti; un istante dopo comprende di essere destinato, semplicemente, ad essere spettatore della fine del proprio sistema solare, e che ciò è avvenuto per puro caso. L’Occhio dell’Universo, che lungo tutta l’esperienza di gioco ha dato l’illusione di essere un ancora di salvezza, altro non si rivela che uno strumento di distruzione, un palcoscenico da cui assistere alla fine di tutto.
Insomma, Outer Wilds costringe il videogiocatore a fare i conti con una paura primordiale, quella che da sempre è insita nell’essere umano: quella della morte, della fine della propria esistenza. Una paura che si fa sentire lungo tutta l’esperienza di gioco, ad ogni esplosione della supernova: nonostante si sappia che la fine del singolo loop non equivalga a un game over, ci si sente irrazionalmente ansiosi all’arrivo della musica che preannuncia l’esplosione del sole – arrivando a sentirsi un po’ come Matthew McConaughey in Interstellar. Non vogliamo che il ciclo si concluda prima di ottenere le risposte che ci eravamo prefissati di ottenere entro quell’arco temporale. Forse è per questo che, alla fine del gioco, ci si sente in qualche modo preparati all’idea che quel piccolo sistema solare in cui abbiamo vissuto la nostra avventura sia destinato a sparire per sempre: quantomeno abbiamo tutte le risposte. O forse, è lo stesso Occhio dell’Universo ad aiutarci a fare i conti con l’accettazione dell’inevitabilità della fine, ricordandoci che ogni fine rappresenta anche un nuovo inizio, che tutto ciò che ci si lascia indietro apre le porte a qualcosa di nuovo. Che anche se la nostra esistenza giunge al termine, ciò che abbiamo fatto nel corso della nuova vita può lasciare un’impronta, anche se minuscola, nella costruzione del futuro.
Un’incredibile cura dei dettagli
Altro punto a favore di Outer Wilds su cui porre l’accento è il fatto che nulla sia lasciato al caso – a parte il destino del nostro protagonista, ovviamente. Ciò è evidente a partire dalle modalità di navigazione spaziale, con una velocità di movimento della navetta che deve essere regolata in base alla distanza dal sole (che attira a sé attraverso la forza di gravità), della distanza dal pianeta su cui si desidera atterrare, dalla velocità con cui questo si muove. I pianeti che formano il sistema solare in cui si svolge la nostra avventura sono tutti perfettamente caratterizzati, con delle proprietà precise sia dal punto di vista estetico, sia funzionale, sia fisico – la gravità di ogni pianeta influisce sulla potenza dei propulsori della nostra tuta.
Ma la cura dei dettagli che più colpisce è da ricercarsi nel punto di vista narrativo: tutto ciò di cui veniamo a conoscenza tramite gli scritti dei nomai ha una propria utilità, ogni singolo dialogo risulta utile nel rispondere alle nostre domande e riuscire a completare il puzzle, che al termine del gioco ci darà un quadro completo di tutto ciò che è accaduto prima e durante gli eventi del gioco. Non esistono domande senza risposta in Outer Wilds – con una sola eccezione, ma la risposta si avrà nel DLC Echoes of the Eye -, non vi sono cose buttate lì per puro caso, prive di un proprio senso all’interno della storia. La ricostruzione della storia dei nomai, insomma, non ha nulla da invidiare ai thriller che appassionano migliaia di amanti del genere attraverso la letteratura, il cinema o il piccolo schermo.
La musica unisce
Come in ogni opera degna di nota che si rispetti, non manca in Outer Wilds una caratteristica colonna sonora. Il ruolo svolto dalla musica all’interno del gioco è piuttosto interessante: non si limita, infatti, ad essere un sottofondo che diventa più presente nei momenti clou, ma svolge anche una propria funzione narrativa. I teporiani che esplorano lo spazio hanno ideato un sistema di segnalazioni basato sulla melodia di alcuni strumenti musicali. Ciascuno di loro ne ha uno, e il suo suono può essere captato dagli altri esploratori attraverso un amplificatore di suoni a distanza chiamato Segnaloscopio. Nel momento in cui ci si allontana abbastanza dal proprio sistema solare, il Segnaloscopio è in grado di far convergere tutti i suoni dei diversi strumenti in un’unica melodia, facendo sentire il protagonista vicino a tutti i propri compagni di avventura proprio nel momento in cui è più fisicamente lontano da loro. Un messaggio assai romantico, che raggiunge il suo apice nel finale: ad attivare il portale che porta alla fine dell’universo esistente e alla nascita di un nuovo universo è proprio la riproduzione simultanea di tutte le melodie, da parte dei diversi viaggiatori spaziali, che avviene attorno al falò sul pianeta creato dall’Occhio dell’Universo.
Sicuramente le modalità di navigazione un po’ complesse, e la presenza di rompicapi e terreni da esplorare un po’ ostici, rendono Outer Wilds un gioco un po’ di nicchia, che a primo impatto potrebbe scoraggiare alcuni videogiocatori, ma l’unicità del gameplay, l’esperienza che offre dal punto di vista emotivo e il grado di coinvolgimento della trama rappresentano decisamente degli ottimi motivi per provare a dargli una possibilità. Scoprire i misteri che circondano questo piccolo sistema solare potrebbe farvi scoprire qualcosa in più su voi stessi, oppure no, ma in ogni caso avrete vissuto un’avventura indimenticabile.
Immagine in evidenza: copertina del videogioco Outer Wilds