Dare la vita di Michela Murgia: il pamphlet postumo | Recensione

Dare la vita di Michela Murgia: il pamphlet postumo | Recensione

Dare la vita, l’opera postuma di Michela Murgia 

«Ma è possibile che, nel 2024, ancora non si è liberi di scegliere chi poter amare, e in che forma farlo?» – è un interrogativo totemico che, qui e lì, nei contesti in cui riesco a godere di conversazioni impegnate, tutt’oggi sento ancora in molti porsi. Michela Murgia, invece, no. Dà interamente per assodato che la creazione di un codice delle relazioni che più ci rispecchi sia in capo a noi e a noi soltanto, perché l’unica verità a contare resta, da sempre, quella del desiderio. Da ciò non può che scaturire una visione galvanizzata di cosa sia la realtà, che non è, come alcuni vorrebbero farci credere, un’anodina equazione matematica in cui alcune variabili sono rappresentate da divieti, snaturatezze e mortifere alterazioni sessuali – tolti i quali, il risultato finale torna in maniera perfetta – ma è, semplicemente, un circolo munifico di predisposizioni sentimentali che ci posiziona nel sostrato esistenziale da cui riusciamo a trarre più nutrimento per la nostra mente.  

Dare la vita, edito da Rizzoli, è un compendio badiale di quei temi attraverso la cui superficie riflettente, soprattutto negli ultimi anni, Michela Murgia è riuscita a fare alacremente politica, scardinando i pioli – già in parte allentati da un fenomeno naturale in atto da sempre, ovvero quello dell’evoluzione del pensiero – che fungevano da sostegno ad una visione monocromatica e adimensionale tanto dell’orientamento sessuale quanto della famiglia. Se, da sempre, lo strumento della finzione in letteratura ha lo scopo di convogliare l’attenzione del lettore senza che se ne accorga verso domini tematici che spaventano o che piacciono poco, spingendolo inconsapevolmente alla riflessione, a questo giro di boa Michela si spoglia completamente della scrittura romanzata – che invece aveva prediletto, per affrontare le stesse cavillose materie, in libri come Accabadora e Chirù, giusto per citarne due – e sceglie una formula didascalica di ampio respiro, che lascia margine nullo a fraintendimenti ed elucubrazioni: il pamphlet.    

Siamo al cospetto di appunti personali che Michela Murgia ha gelosamente collezionato nel corso degli ultimi otto anni, riflessioni tra sé e sé che hanno bruciato, in segreto, all’idea di vedere finalmente la luce del sole. Alessandro Giammei – uno dei suoi quattro fillus de anima e curatore della pubblicazione – ha raccontato di aver dovuto creare degli innesti di connessione tra i singoli capitoli: metterli in ordine e classificarli per macro-tema non sarebbe bastato a spegnere l’impressione che navigassero, spaiati, nell’etere. Da questo flusso di coscienza un po’ joyceiana – in cui il contenuto assume un ruolo prioritario rispetto alla forma, scomposta e frammentata  – comprendiamo l’esigenza tutta della scrittrice, uterina ed indifferibile, che dovendo fare i conti con un orologio biologico arrivato quasi al suo ultimo giro completo, sceglie lo strumento più diretto e rapido di cui dispone (il saggio, per l’appunto) per sciogliere i nodi di questioni arroventate come la queerness e la maternità surrogata.

Le pagine di Dare la vita trasudano visibilmente la necessità di Michela Murgia di raccontare l’esistenza di altre forme relazionali che, lungi dal voler surclassare ed espungere quelle canoniche della coppia eterosessuale e del binomio familiare madre-padre, vorrebbero ad esse solo affiancarsi, guadagnando lo stesso grado di dignità e validità. La macchinazione complottista che individua nello sviluppo di amori omosessuali e nelle famiglie estese e senza legami di sangue la volontà coatta di sbarbicare totalmente il sistema monolitico e centripeto dei costumi tradizionali della società, è una chimera spettrale: potrebbe mai, chi rivendica il sacrosanto diritto (che, a dirla proprio tutta, dovrebbe essergli riconosciuto in automatico) all’abilitazione di un’esistenza che sia conforme ai suoi gusti, desideri, piaceri, auspicare di sottrarre lo stesso diritto a qualcun altro, solo per attribuire maggiore idoneità alla propria posizione? Siamo forse dinanzi ad un semplicistico gioco di proiezioni, per il quale ciò che – con grande disprezzo – recriminiamo alla controparte è ciò che invece faremmo noi in primis? Abituati a vivere rigidamente in un regime dell’aut aut – in cui, di due posizioni diametralmente opposte che si pensa non possono coesistere, una, per forza di cose, è allora destinata in automatico a fagocitare l’altra – in molti guardano alla diversità con smarrimento, allarme, sospetto. Tutto ciò che si discosta dalle regole, che si sottrae alle (scarse) sfumature della normalità, intimorisce, spaventa, e non tanto, forse, per la diversità in sé, quanto perché se non c’è nessuno pronto a dirci cosa poter fare e non poter fare, chi o cosa siamo? Ci tocca, per davvero, ricamare la nostra personalità da un gomitolo di lana tutto nuovo di zecca? 

Dare la vita sembra raccontare di autenticità e di libertà d’espressione, ed in effetti è quello che fa, ma sarebbe riduttivo fermarsi solo in superficie. Dissimulati silentemente tra le righe altri due aspetti, senza i quali la costituzione di un’identità statuaria e consapevole non potrebbe avvenire: la responsabilità collettiva ed il coraggio. Tacere significa consentire deliberatamente allo spettro dell’incomunicabilità di conquistare sempre più terreno, di annidarsi nei pensieri già oltremodo misoneisti di chi non dispone degli strumenti adeguati per formulare idee proprie su cosa rappresenti davvero il cambiamento; esprimersi, invece, permette di spezzare l’asfittica catena dell’abuso ideologico, dell’incasellamento pregiudizievole di idee, persone, sentimenti, amori. Attenzione, tuttavia, a non inciampare nel tranello dell’autopromozione: in un tempo in cui i social sono diventati la vetrina preferenziale attraverso cui tarare, con grande meticolosità, la propria reputazione in funzione di quanto si sostenga tutto ciò che appare anticonformista e quindi fa notizia, professarsi simpatizzanti per una tendenza, esclusivamente variando ciò che è già stato scritto o detto da altri non equivale, per niente, a fare del reale attivismo. L’omosessualità non è una moda, la queerness non è un gioco di ruoli e apprezzare acriticamente la radicalità non salva, in automatico, dal mostro dell’omologazione di massa.  

L’unico vero strumento a disposizione, per quanto mitopoietico (e al contempo semplicistico) possa risultare, è la capacità di esporsi in prima persona: Michela Murgia spiega, sì, ma non lo fa per sentito dire; parte dalle sue vicende personali, riporta, in uno smaccato slancio di generosità (di cui non tutti al giorno d’oggi sarebbero capaci), immagini tangibili di una realtà intima e personale – che avrebbe potuto tenere benissimo per sé – dimostrando come e quanto le cose possano funzionare correttamente anche in una famiglia composta da dieci persone, senza figli biologici o componenti erotiche a legare i membri. In barba a tutte le considerazioni sull’ambiguità e l’equivocità, la fluidità scambievole delle posizioni reciproche consente una presenza e un supporto costanti, un dinamismo relazionale che non intrappola, ma al contrario elogia l’arte del saper restare senza il fantasma solipsistico dei vincoli. Mentre la maggior parte si nasconde dietro ad un dito, inorridita dalla possibilità di essere risucchiata nel vortice dello shitstorming se si porta nel mondo per ciò che realmente è, la scrittrice sarda spiega le vele verso orizzonti che alcuni non saprebbero nemmeno immaginare. Abbiamo bisogno di più persone in prima linea pronte a tutto. Perché spesso il coraggio si inocula negli altri così, per osmosi. Del resto, non tutti i pensieri sono capaci di generare mondi. Quelli di Michela, invece, hanno saputo generare universi.

Fonte immagine in evidenza: Rizzoli

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